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mercoledì 20 marzo 2013

2013, nel segno di Verdi


GRANDI ANNIVERSARI
Dal Messaggero di sant’Antonio, marzo 2013
Nel segno di Verdi

Il 2013 è l’anno del bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, il grande compositore, icona dell’Italia e degli italiani nel mondo. Verità e miti nella vita e nell’opera di un artista geniale, la cui fama dura nei secoli

Per molti anni lo abbiamo anche portato in tasca: il volto di Giuseppe Verdi, incorniciato dall’inconfondibile ed elegante barba bianca, compariva pure sulle banconote da mille lire, quelle che ogni tanto rispuntano da qualche cassetto dei ricordi. E se perfino a New York c’è una piazzetta dedicata a lui, con un monumento inaugurato già agli inizi del Novecento, vuol dire che Giuseppe Verdi è stato, ed è ancora, un simbolo del nostro Paese e soprattutto della sua «anima». Il 2013 è l’anno del bicentenario della nascita dello straordinario compositore di Busseto (PR), e nel mare magnum delle celebrazioni noi italiani possiamo ritrovare «in musica le nostre radici», come annota anche il maestro Riccardo Muti in Verdi, l’italiano (Rizzoli), il libro che ha dedicato al patriarca della nostra cultura a sette note. Arie come «La donna è mobile» dal Rigoletto o brani come la «Marcia trionfale» dall’Aida o il brindisi dalla Traviata sono ormai entrati nell’immaginario collettivo: fanno parte di noi, della nostra vita, come affettuosi compagni di viaggio. «Verdi è l’artista che meglio è riuscito a esprimere il nostro temperamento – sottolinea Muti –. L’Italia è fatta di tanti diversi italiani, però c’è un modo di essere italico che Verdi rappresenta in maniera vivida e in questo senso mi piace parlare di italianità verdiana». Nelle ventisette opere che compongono l’affresco del suo genio c’è molto di quello che siamo, e che non cambia con il trascorrere degli anni. 

A caccia di ricordi 

Varcare la soglia della casa dove Verdi nacque, alle Roncole di Busseto, nella bassa parmense, è sempre un’emozione. La sua vita, in fondo, è stata un grande romanzo. Non conosciamo esattamente la sua data di nascita: all’anagrafe venne registrato l’11 ottobre 1813 ma sul registro venne scritto «nato ieri», quindi il 10 ottobre, anche se il compositore amava festeggiare il suo compleanno il 9. Il papà era un oste, la mamma una filatrice. Fu Antonio Barezzi, negoziante e possidente di Busseto, a intui­re il suo talento e a sostenerlo economicamente negli studi musicali a Milano: divenne persino suo suocero, anche se il matrimonio fra Giuseppe Verdi e Margherita Barezzi fu presto funestato dalla morte di due figli e della giovane sposa. 

La musica fu sempre con lui. Il Nabucco del 1842 arrivò tre anni dopo il suo esordio con Oberto, Conte di San Bonifacio, e fu il suo primo, vero successo. La cosiddetta «trilogia popolare», una sequenza di capolavori, Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata, nacque fra il 1851 e il 1853, Don Carlo debuttò nel 1867, nel periodo della grande maturità artistica, Aida fu lanciata nel 1871 (in occasione dell’apertura del Canale di Suez), Otello nel 1887 e Falstaff nel 1893, quando Verdi aveva ormai 80 anni. Nel 1859 il maestro aveva sposato Giuseppina Strepponi, il soprano con cui aveva avuto una relazione lunga e anche scandalosa per l’epoca: lei lo accompagnò per molti anni e si spense nel 1897, lui morì qualche anno dopo, il 27 gennaio 1901 al Grand Hotel et De Milan, a due passi dal Teatro alla Scala. «Pianse e amò per tutti» scrisse Gabriele D’Annunzio per il suo epitaffio. «Verdi ha fatto l’Italia non solo nell’opera ma anche nella vita, in un percorso che è quello della borghesia italiana del Nord che aveva conquistato la preminenza sociale e voleva anche quella politica» spiega Alberto Mattioli, critico musicale e convinto melomane (anzi, «operoinomane», come ama definirsi), autore dell’arguto libro Anche stasera. Come l’opera ti cambia la vita (Mondadori). 

La passione politica 

Verdi – non solo per ragioni anagrafiche – è stato spesso associato al Risorgimento: si è detto e scritto che nelle sue opere si riconosce lo slancio dei patrioti, e che la sua musica attraversa, come una colonna sonora, quegli anni di fermento rivoluzionario. È vero che sicuramente, come osserva anche il maestro Muti, «non si può parlare del primo Verdi senza riconoscere il suo contributo alla causa della libertà italiana: egli ebbe grande influenza sui patrioti, e con la sua musica praticamente li armò». Tuttavia, almeno agli inizi, Verdi non aveva un intento politico o rivoluzionario: «Quando scrisse il Nabucco con il “Va’, pensiero”, lui non aveva in mente l’Italia di allora, e gli ebrei che cantano la patria “sì bella e perduta” sono proprio quelli della Bibbia» aggiunge Mattioli. «Né a Verdi né al librettista Temistocle Solera era passata per il capo la possibilità di un’allusione alle condizioni presenti dell’Italia» ha ammesso anche il musicologo Massimo Mila in uno dei suoi storici scritti, raccolti nell’antologia Verdi, ripubblicata di recente. «Semplicemente sapeva che quel tipo di musica avrebbe incontrato il favore del pubblico» chiosa Muti. Certo, il coro struggente ed emozionante del «Va’, pensiero» è diventato subito un inno per gli italiani, tanto che qualcuno ha proposto anche di sostituirlo a quello di Mameli. 

Ciò non significa che Verdi non avesse una passione politica, le sue scelte anzi calcano la storia d’Italia di quegli anni. Attorno al 1848 fu vicino agli ambienti repubblicani, poi fu conquistato da Cavour e divenne liberale e monarchico, e finì ultraconservatore; nel 1861 divenne deputato nel primo parlamento nazionale e nel 1874 fu nominato senatore a vita. 

Un antropologo col pentagramma 

Giuseppe Verdi scrisse opere che potevano riflettere un pensiero rivoluzionario «ma non mise mai la sua arte al servizio della politica» rimarca Mila. E allora, perché si parla di un Verdi «politico»? «Perché lui faceva politica concentrandosi sulla critica sociale – spiega Mattioli –. Non a caso passò la vita a litigare con i censori...». Traviata, per esempio, è un deciso attacco all’ipocrisia di certa società che rifiutava la cortigiana Violetta Valéry, e nel Rigoletto si prende di mira l’immoralità di molti ambienti «in vista». «In fondo, oggi Radames dell’Aida sarebbe il ragazzo di buona famiglia che si innamora della colf» ride il critico. Dietro lo schermo di antiche storie o luoghi lontani, Verdi ha disegnato soprattutto gli italiani: «È stato un grande antropologo dell’Italia, un narratore di vizi e virtù, figure e figuri, tipi e costanti nazionali – dice Alberto Mattioli –. È stato uno degli intellettuali che ci hanno davvero raccontati per come siamo e non per come dovremmo essere». E, soprattutto, nella musica ha saputo interpretare il cuore degli italiani: «La sua musica era popolare, nel vero senso del termine: era un linguaggio che andava dritto al cuore delle persone» argomenta il maestro Muti nel suo libro. Ecco perché Verdi è amato in tutto il mondo, e tutto il mondo ha accolto le sue opere, come un patrimonio universale: «Senza i suoi titoli i teatri lirici di tutti i continenti non saprebbero come riempire le sale o sarebbero costretti a chiudere» fanno notare gli esperti. Nell’universo di Verdi c’è lo stile italiano, c’è amore, c’è passione vera. E non è solo melodramma. (Stefano Marchetti - Il Messaggero di sant’Antonio, edizione italiana per l’estero /Inform)

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