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venerdì 12 aprile 2013

Un italiano nella Silicon Valley


RASSEGNA STAMPA
Da “L’Opinione” del 12 aprile 2013
Un italiano nella Silicon Valley

Umberto Mucci intervista Mauro Battocchi, console italiano a San Francisco

SAN FRANCISCO - Mauro Battocchi è il console italiano a San Francisco dal settembre dello scorso anno. Capo dell'ufficio per il commercio alla Farnesina dal 2003 al 2008, Battocchi ha lavorato anche alle ambasciate di Tel Aviv e Bonn. 

Signor Console, si è da poco svolta a San Francisco la Italy Tech Week, una settimana in cui le istituzioni pubbliche e private italiane nella Bay Area hanno, ancora una volta, dimostrato quanto e come l’innovazione italiana sia matura e creativa. Noi spereremmo sempre che l’Italia fosse tutta come quella che viene descritta – senza inventare nulla o esagerare – spesso a San Francisco. Oltre a dirvi grazie di cuore per credere in noi più di quanto noi sembriamo fare al di qua dell’oceano, le chiediamo: ma noi italiani siamo davvero così innovativi, visti da lì? 

La forza dell’Italia nell’Information Technology è una realtà che è radicata nella nostra eccellenza nel campo ingegneristico. Abbiamo ottime università che hanno formato e continuano a formare molti ingegneri che, come diceva Federico Faggin (padre del primo microprocessore, e un po’ emblema qui in Silicon Valley delle grandi capacità italiane), garantiscono una solida preparazione di base, capacità di pensiero creativo out of the box e molta flessibilità. Io aggiungerei un quarto fattore molto importante, che è quello del costo: pagare qui a san Francisco quattro ingegneri costa probabilmente il doppio di quanto costi in Italia. C’è anche da dire che negli ultimi cinque/sei anni si è assistito ad una esplosione di start-up italiane: esiste una nuova generazione di giovani che sono pronti a rischiare imprenditorialmente: ciò è determinato ovviamente anche dalle condizioni economiche dell’Italia di oggi, ma il risultato è che su un consolidato zoccolo di base di competenze c’è una nuova volontà di fare rischio. Silicon Valley in questa situazione diventa utile, perché questo è il posto in cui le idee imprenditoriali si possono validare, analizzare e realizzare. C’è qui una consolidata infrastruttura che valuta le idee, e se sono buone si fornisce loro gli strumenti sia reali (la mentorship, l’assistenza nel costruire il piano di business) che finanziari perché queste idee diventino globali. Non si parla dunque di esportare cervelli: al contrario, si tratta di prendere le idee imprenditoriali italiane, trasformarle in imprese reali con un mercato globale, in maniera che poi possano lavorare (anche) in Italia, e ci sono motivi di costo che favoriscono questa permanenza in Italia dei loro back office. Sono molti gli esempi che già esistono in questo senso, e per questo siamo incoraggiati a pensare che, al di là di alcune immagini dell’Italia che non vorremmo vedere, c’è una realtà davvero molto interessante, tanto che qualcuno sostiene che “Italy could be the next start-up nation”. Per fortuna, questi sono fatti, come pure è un fatto che San Francisco e la Silicon Valley possano effettivamente aiutare a disvelare questo best kept secret circa le possibilità del nostro bel Paese. 

Nel 1989 lo Stato della California proclamò il garage dove Hewlett e Packard crearono HP “the birthplace of Silicon Valley”, e ne fece un California Historical Landmark. I due pionieri ebbero i loro primissimi soldi da un visionario banchiere che si chiamava Amadeo Giannini, di origini genovesi, che arrivò poi a guidare la nuova Bank of America fino a dopo la depressione economica. Ma Giannini non è il solo italiano che ha lasciato il segno nella storia di San Francisco e della Silicon Valley … 

In realtà tutta la città di San Francisco è stata costruita dagli italiani insieme agli irlandesi. Il North Beach e tutta la Marina erano di fatto città italiane, popolate da una fortissima comunità di commercianti e di pescatori, da cui si è poi sviluppata una florida èlite finanziaria. All’inizio del secolo la comunità aveva ben quattro giornali in lingua italiana e operava mediante una forza di volontà stupefacente, che personalmente mi fa enormemente inorgoglire. Questa base ha permesso di costruire un prestigio che anche adesso è molto forte, e che forse non è chiaro del tutto agli italiani che vivono in Italia. Oggi parlare di Italia a San Francisco significa parlare di una realtà consolidata e percepita come molto importante e fortemente affermata. Su questo sfondo sono arrivati poi negli ultimi trenta/quaranta anni molti personaggi innovativi e vincenti. La Logitech, leader mondiale nella vendita dei mouse, fu fondata da uno svizzero insieme a due Italiani, Pierluigi Zappacosta e Giacomo Marini. Federico Faggin, di cui parlavo prima, non ha solo creato il primo microchip: è stato candidato al Premio Nobel, ed è stato fra i fondatori dell’azienda che per prima diffuse il touchpad. C’è Roberto Crea, inventore dell’insulina sintetica. E molti altri. E’ chiaro che c’è un’identità forte e una solida continuità che parte dai primi italiani di San Francisco, prosegue con questa comunità viva di grandi pionieri tecnologici e porta a quella del presente, estremamente effervescente. Il bello dell’Innovation Day, organizzato all’interno dell’Italy Tech Week, è che abbiamo messo insieme i giganti degli ultimi decenni con i ragazzi di oggi, facendo in modo che i primi facessero da mentors per i secondi: l’infrastruttura di conoscenza e di entusiasmo è fondamentale ed è una ricchezza italiana che non va sprecata ma anzi ulteriormente implementata. Giannini ebbe un ruolo fondamentale nell’aiuto alla comunità italiana ma in generale a tutta San Francisco, specie dopo il terremoto del 1906. Un altro importante banchiere italiano di quell’epoca qui a San Francisco fu John Fugazi. Anche in questo gli italiani furono innovatori ed ebbero grandi meriti e grande successo, come quelli di oggi e di domani. 

A questo proposito, c’è qualche nuova startup italiana che ti ha particolarmente impressionato? 

Ce ne sono diverse, devo dire. Una che mi ha colpito molto si chiama Center Vue, e ha sviluppato una particolare macchina fotografica che in pochi secondi fa un completo esame della vista. E’ un’idea che innova e rivoluziona completamente questo tipo di esame, perché si può fare in qualsiasi luogo e non necessariamente mediante ingombranti, costosissimi, pesanti e antiestetici macchinari in un dedicato laboratorio o studio professionale. E’ il laboratorio che va dal paziente, e non viceversa, e invia poi le immagini collezionate al medico che le analizza e ne dà il responso. La società è in trattativa con diversi giganti della distribuzione americana per mettere questi macchinari dove la gente va a fare shopping di ogni tipo o a passare del tempo libero, con un risparmio di tempo e di denaro. L’idea è di un italiano di Padova, la società è italiana: è innovazione nella sua versione più consumer friendly. 

Qual è il territorio sul quale opera il Consolato da Lei diretto? Ci può dire qualcosa di poco noto qui in Italia, circa alcune di queste zone? 

Il territorio di competenza del Consolato di San Francisco è molto esteso, ricco di bellezze naturali ed economicamente molto vivace. Ci sono la California del Nord, l’Oregon, lo Stato di Washington, il Montana, l’Idaho, lo Utah, l’Alaska, le Hawaii e i territori Americani del Pacifico. Lo Utah è stato sicuramente una grande sorpresa. Lì abbiamo un Console Onorario bravissimo, che si chiama Michael Homer e parla benissimo l’italiano. Ho trovato un territorio con una natura meravigliosa, con la neve migliore della west coast, e con un’etica molto business friendly, anche perché essendo al di fuori dei percorsi solitamente battuti si è sviluppata una enorme ricettività riguardo a idee imprenditoriali, con burocrazia inesistente e molta facilità per fare affari. C’è poi un fantastico progetto chiamato Family Search – gestito dalla comunità mormone - che mira a ricostruire l’albero genealogico globale, con il più grande archivio documentale al mondo su questi argomenti. Un programma enorme che tende a digitalizzare milioni di documenti: hanno stipulato in tal senso anche un accordo con l’Archivio Nazionale di Stato Italiano. Questi documenti, affinché si conservino adeguatamente nel tempo, sono mantenuti al centro di una montagna: il direttore delle pubbliche relazioni è un italoamericano, si chiama Paul Nauta. Ci sono italiani che ricoprono incarichi dirigenziali anche lì: siamo ovunque! Nello Utah comunque sono due i gruppi di italiani. Uno è composto dagli eredi dei Valdesi che vennero nell’800 per sfuggire alle persecuzioni religiose, e poi si sono convertiti al mormonismo; l’altro raggruppa gli eredi dei siciliani e dei calabresi che vennero per costruire la ferrovia, e che oggi ricoprono posizioni di grande stima, prestigio e responsabilità nella società dello Utah. Ad esempio, il più grande business angel dello Stato è un italoamericano, si chiama Troy D’Ambrosio: è il Direttore del Centro per l’Imprenditorialità della Università dello Utah, che ha portato ad avere il primato di quella che ha dato vita al più alto numero di spin off di tutte le Università americane. 

Un’altra grandissima risorsa della California del Nord è certamente il vino, che è oggi il nostro prodotto enogastronomico di punta. Che rapporti ci sono in questo campo tra i produttori di vino italiani e quelli californiani? C’è possibilità per un’ulteriore espansione delle nostre esportazioni? 

In primis mi piace ricordare che anche la cultura della viticoltura in California è stata essenzialmente portata dagli italiani, molti dei quali poi si sono fermati qua, anche perché la California del Nord ha un clima simile a quello italiano. I grandi nomi dei migliori produttori californiani sono tutti di origine italiana. Oggi i vini italiani hanno effettivamente il primato in quanto a importazione dagli Stati Uniti, e le potenzialità sono ancora molto grandi. I californiani adottano un approccio molto industriale all’intero processo che li porta a produrre il vino: grandi numeri, ricorso all’innovazione tecnologica. Il nostro approccio è più tradizionale e comporta qualche differenza: tra i due metodi va costruito un ponte, che permetta alla concorrenza – che c’è, e si sente – di allargare il mercato con reciproca soddisfazione. 

Anche San Francisco ha la sua Little Italy. Chi e quanti sono gli italoamericani che vivono nelle zone di competenza del Suo Consolato? 

Il dato che abbiamo è relativo alla California del Nord, ma è quello del 2000: quello è l’ultimo censimento nel quale ci fu la possibilità di segnare la propria origine come italiana. Dal 2010 in poi gli americani di etnia italiana non hanno trovato “Italia” come zona di origine da segnare, perché ricompresi insieme ad altri americani di altre origini. Nel 2000 furono 700.000 gli americani che si dichiararono di origine italiana nelle 48 contee della California del Nord. Ce ne sono poi ancora negli altri Stati, ma non numerosi come in California. Oggi, come dicevamo, gli italiani sono nelle posizioni apicali di tutti i settori in cui si divide la società americana: dalla cultura all’economia alla politica e così via. La comunità ci sta aiutando molto a promuovere questo anno della cultura italiana negli Stati Uniti, partecipando attivamente alle iniziative: abbiamo avuto l’onore di avere il grande poeta beatnik Lawrence Ferlinghetti che è intervenuto con un video nel quale ha parlato italiano e invitato a studiare la nostra lingua. (Umberto Mucci- L’Opinione delle Libertà del 12.4.2013) 

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