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lunedì 26 agosto 2013

Ebraicità al femminile. Otto artiste del Novecento

MOSTRE
A Padova dal 31 agosto al 13 ottobre

Ebraicità al femminile. Otto artiste del Novecento

PADOVA – “Ebraicità al femminile. Otto artiste del Novecento” in mostra a Padova dal 31 agosto al 13 ottobre . La mostra, promossa dal Comune di Padova, e sostenuta dalla Comunità Ebraica di Padova, sarà allestita negli spazi espositivi del Centro Culturale Altinate San Gaetano.

La mostra presenta un’accurata selezione di opere di otto artiste del Novecento che tiene conto di una doppia identità: l’essere donne ed ebree oltre che artiste, dedicate a una vocazione scelta e perseguita con lucida passione.

Al centro dell’esposizione s’impone, per quantità e qualità di opere, la presenza di Antonietta Raphael protagonista della Scuola Romana, pittrice e scultrice il cui valore è emerso con chiarezza sin dalle prime rivisitazione condotte con approfondite mostre monografiche sin dagli anni ottanta. In mostra ci saranno opere fondamentali e assai note: dipinti come Autoritratto con violino e Natura morta con chitarra e un consistente numero di sculture come Angoscia e Re Davide piange la morte di Assalonne. Non mancano soggetti relativi al tema dell’ebraicità (La lamentazione di Giobbe e Yom Kippur in sinagoga) nei quali Raphael ribadisce il suo “deciso orgoglio della differenza”: Mia madre benedice le candele appare come il testamento morale di una donna e di un’artista straordinaria. Una sala centrale è dedicata anche a Eva Fischer, pittrice assai feconda e ancora attiva. Fisher traduce il ricordo “della tragedia” in un personale diario sulla Shoah: è la pagina più toccante della sua produzione fatta di colori lividi che rimandano ai versi di Nelly Sachs- (Meditate che questo è stato). Ma la sua personalità solare si nutre anche di altri temi che si succedono a cicli: gli Interni, i Mercati (che incantarono de Chirico), Capri le cui architetture mediterranee finiranno per trasformarsi in partiture astratte ispirate alle composizioni che scrisse per lei Ennio Morricone. Fisher visse per intero la stagione romana del dopoguerra, apprezzata dai protagonisti dell’arte, del cinema, della letteratura, della musica che si davano convegno in quei luoghi di socialità e dibattito rimasti leggendari.

La prima sala della mostra è dedicata ad Alis Levi che si presenta con i disegni di formazione e le prime prove a pastello nate sulla scia dei maestri francesi, ma che ben presto lasciano spazio a innovazioni di matrice capesarina, vicine a Gino Rossi e a Garbari, come testimonia Bambino sotto l’albero. In opere quali S. Pietro in Volta e Paesaggio. Alis si affida prevalentemente all’acquarello: i piccoli paesaggi pittoreschi sono pieni di luce, incastonati in ombre scure e animati dal gioco dei pastelli che crea densità e asperità accentuandone i toni e esaltandone il valore cromatico.

Continuando nel percorso troviamo affiancate nella sala successiva, Adriana Pincherle e Gabriella Oreffice, due pittrici che accendono i toni di una policromia pulsante confrontandosi sulle due sponde opposte dell’Espressonismo e del Postimpressionismo. Adriana, la “fauve” romana, mette tutta la sua vitalità in “pezze di vivo colore” distribuite con eguale irruenza nei celebri ritratti (come quelli della sorella: Ritratto di Elena con cappellino del 1950 e nel più tardo Ritratto di Elena Cimino) e nelle composizioni come La scatola dei guanti, di grande e costruttiva intensità cromatica. La Oreffice esponente di spicco della seconda stagione capesarina, esordisce in mostra con Maschera siamese che risente di un breve ma fecondo allunato presso Galileo Chini. A seguire dipinti di straordinaria carica cromatica come la tempera del 1919 Natura morta con sedia rossa o Mele e tazzina, un olio su tavola del 1927, mentre in Natura morta – Il The, del 1920 il colore si fa più scabro e asciutto. Paesaggi quali Barene a Mazzorbo del 1926 risentono ancora di cromatismi brillanti che in opere come Riva degli Schiavoni e Barche sul canale si ripiegano in luminosità più soffuse. Spicca in mostra il Ritratto di Semeghini, del 1929.

Altro genere di pittura è quello di Lotte Frumi nata a Praga e formatasi alla cultura Mitteleuropea (conobbe e frequentò Kafka e Schiele). Il suo stile si basa su un antinaturalismo espressionista che si avvale di una luce chiara, a volte livida e di colori freddi cui spesso fa da contrappunto il dialogo acceso di rossi e ruggine. In mostra paesaggi quali Vela rossa e Le lavandaie dialogano con i ritratti di Armando Pizzinato e Ernesto Rubin de Cervin.

La koiné novecentista è presente in mostra con una pittrice di grande valore, nipote di Margherita Sarfatti, che morì giovane di parto, Paola Consolo. Le sue figure fortemente modellate, vigorosamente plastiche ma possiedono anche una sottile intelligenza del colore che, diventando via via meno mentale, si affida ai rosa segreti, ai grigi minerali, agli azzurri soffusi che infondono alla sua pittura una liricità silenziosa. Nell’Autoritratto, esposto alla Biennale del 1932, l’artista si presenta come un’icona novecentista: i toni bassi sottolineati dal chiaroscuro accentuano la rigorosità delle forme.

Nell’ultima sala Silvana Weiller che non è stata solo pittrice ma anche poetessa, scrittrice, critico d’arte e letterario. Protagonista dell’intellettualità patavina degli anni Cinquanta e Sessanta, è figura ancora molto amata in città. La mostra mette in risalto un operato articolato e pluriforme, muove da sperimentazioni materiche grevi di colore squillante (Il Prato verde) dove pian piano ogni figuratività è rimossa ( Muri in ghetto e Alberi di luce) sino a giungere ai monocromi, densi di pece rappresa.(Inform)

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