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lunedì 15 aprile 2013

Precari del narcotraffico nelle galere del Sudamerica


RASSEGNA STAMPA

Da “La Stampa.it”

Precari del narcotraffico nelle galere del Sudamerica

Giovani, disoccupati, corrieri per pochi soldi: l’identikit dei nostri carcerati all’estero

 

 



L’arresto più clamoroso risale a un anno fa. Una ragazza e due ragazzi. Età: 24, 27 e 29 anni. Gli agenti della Dirandro (Direzione antidroga della polizia del Perù) li intercettarono con 89 ovuli di cocaina. Facevano parte dei «Los bambinos», banda specializzata nel traffico di droga verso l’Europa. Il loro viaggio è terminato nella prigione di Callao, a due passi dall’aeroporto di Lima.



Secondo fonti dell’Ambasciata, gli italiani detenuti in Perù sono oggi una sessantina, di questi 16 in semilibertà. Per tutti la stessa accusa: traffico internazionale di stupefacenti. «Negli ultimi anni gli arresti sono aumentati», spiega al telefono il consigliere Ivo Polacco. Colpa della crisi? «Certamente ha influito». Molti dei fermati, infatti, denunciano difficoltà economiche. Ma Tommaso Ziller, assistente sociale presso l’Ambasciata, mette in guardia: «In alcuni casi la crisi è solo un giustificativo. Spesso a spingere queste persone nel giro della droga sono ingenuità, faciloneria, tossicodipendenza e voglia di guadagno facile».



Sarà, intanto, secondo fonti riservate, risulta che il numero di nostri connazionali detenuti all’estero per possesso di sostanze stupefacenti è passato da 718 nel 2010 a 883 nel 2012. Ciò significa che un terzo degli italiani in carcere nel mondo ci è finito per droga. «La cosa triste è che si rovinano la vita per pochi soldi», spiega ancora Ivo Polacco. Il tariffario per un corriere prevede circa 2000 euro a tratta, che possono arrivare a 10.000. Ovviamente dipende dal carico. Ma le probabilità di farla franca sono pochissime. Spesso, in Sud America, gli europei vengono usati come esche: una soffiata alla polizia segnala l’arrivo in aeroporto, così i narcos, quelli veri, possono superare i controlli con carichi più consistenti. Anche se per i grandi quantitativi le organizzazioni criminali non usano aerei, ma preferiscono navi o sottomarini: meno rischiosi e più redditizi.



Mario (lo chiameremo così), detenuto nel penitenziario di Palmira, Colombia, racconta di essere stato incastrato dal tassista a cui aveva lasciato in custodia le valigie: «Ero in coda per il check-in quando un poliziotto mi prese da parte. Il tutto rientrava nella prassi, mi sentivo tranquillo, poi l’agente conficcò uno spillone nella valigia e introdusse un cotton fioc nel buco. «Se esce blu sei fottuto», mi disse. E ovviamente uscì blu. All’udienza ho ammesso la colpevolezza per ottenere lo sconto di pena, ma, giuro, di quella cocaina non sapevo nulla».



Di solito la condanna si aggira intorno ai sei anni, ma può anche essere più alta. In Colombia, se si viene beccati con più di sette chilogrammi di polvere bianca, si rischiano 20 anni, in Venezuela 25. Solitamente si scontano i primi due o tre anni in cella, poi, in caso di buona condotta, scatta la semilibertà. Gli unici ad offrire assistenza ai detenuti, oltre ai famigliari, sono le istituzioni religiose e le ambasciate (In Italia c’è anche «Prigionieri del Silenzio», Onlus fondata nel 2008 da Katia Anedda).



Inutile dire che le carceri, in Sud America, sono un suk di violenza e sofferenza. Paola (anche in questo caso il nome è di fantasia) racconta il dramma di suo fratello, un ragazzo di quasi trent’anni, nel penitenziario di Los Teques, in Venezuela: «Continuamente ci chiedeva soldi. Diceva di aiutarlo, altrimenti i “pran”, i mafiosi del carcere, gli avrebbero tagliato la testa. Così ho lasciato il lavoro e, insieme alla mamma, abbiamo preso un volo per Caracas. Siamo arrivate lì il 17 agosto 2012. Quando lo abbiamo incontrato è stato uno choc. Riusciva a malapena a scendere le scale, era magrissimo, con una costola rotta. Nei suoi occhi il terrore».



Ma se in carcere le condizioni di sopravvivenza sono minime e le tangenti (in Perù le chiamano «coima») sono all’ordine del giorno, fuori, spesso, è anche peggio. Ottenuta la libertà condizionale, infatti, gli stranieri possono uscire di prigione, senza però poter tornare nel loro Paese. E qui inizia un nuovo incubo. Debiti, tossicodipendenza, violenza. «Queste persone, che non sono trafficanti di professione, spesso sono costrette a lasciare illegalmente il Paese - spiega ancora il dottor Ziller -. In Perù la voglia di evadere è sempre accompagnata da motivi economici. Lo Stato esige infatti il risarcimento del danno morale, che si aggira intorno ai 2000-2500 dollari, e, paradossalmente, la multa per eccesso di permanenza sul suolo peruviano (un dollaro al giorno)». Ma gli stranieri in semilibertà non possono lavorare, se non in nero, e, quindi, non resta altro che la fuga o la criminalità. (Enrico Caporale-La Stampa.it, 15 aprile 2013)



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