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mercoledì 6 marzo 2013

“Magazzino 18”, musical di Simone Cristicchi dedicato all’esodo giuliano-dalmato


ESULI
Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia
“Magazzino 18”, musical di Simone Cristicchi dedicato all’esodo giuliano-dalmato

Su www.anvgd.it interviste a Simone Cristicchi e Jan Bernas

ROMA - Debutterà a Trieste il 22 ottobre, ma sul web è già un evento, il musical di Simone Cristicchi "Magazzino 18" dedicato all’esodo giuliano-dalmato e gli eccidi delle Foibe: temi storicamente complessi e per decenni occultati per ragioni di convenienza interna e internazionale e per interessati pregiudizi ideologici, come fa presente l’ANVG, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. 

Cantautore di nuova generazione, Cristicchi ha appreso quelle drammatiche vicende grazie all’incontro con un giornalista, Jan Bernas, autore nel 2010 del saggio Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani (Mursia Editore), nel quale sono raccolte molte testimonianze di profughi italiani da Istria, Fiume e Dalmazia, territori di antico insediamento storico, costretti all’esodo tra il 1945 e ben oltre la fine del conflitto dall’occupazione e dalla violenta persecuzione delle milizie di Tito in quella Venezia Giulia che il dittatore jugoslavo proclamava già annessa ben prima di ogni trattativa di pace. Interviste a Cristicchi e a Bernas sul sito www.anvgd.it

Qui di seguito, riportiamo l’intervista a Simone Cristicchi. 

“Quartiere Giuliano Dalmata. Ma questo signor Giuliano Dalmata, chi era?” 

Recentemente lei è stato definito da un quotidiano nazionale uno degli «alfieri di quella “seconda generazione” di cantautori capitolini che a partire dagli anni Novanta ha segnato una svolta nella canzone d’autore». Come è arrivato a dedicare una canzone all’esodo dei giuliani e dalmati? La storia, tanto più quella di cui trattiamo, non è esattamente un tema prediletto dalla musica leggera… 

Ho scoperto la storia dell’esodo grazie al libro di Jan Bernas Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani. Lo comprai perché il titolo mi incuriosiva. Non sapevo nulla, anche perché questa è una pagina di storia che non insegnano nelle scuole. Poi, un anno fa, mentre ero alla ricerca di storie e testimonianze sulla seconda guerra mondiale, capitai a Trieste e volli visitare il magazzino 18 del porto vecchio. Appena entrato, trovandomi in mezzo a quei duemila metri cubi di masserizie abbandonate, ho provato una sensazione fortissima, ho “visto” la tragedia, e ho deciso che avrei fatto qualcosa per dare voce a quegli oggetti e ai loro proprietari dimenticati. La canzone ha avuto una lunga gestazione; soprattutto il testo, che avrei potuto scrivere in mille modi. Alla fine ho scelto di immedesimarmi nel figlio di un esule che va a cercare nel magazzino le tracce di un padre tanto amato, un padre che non è morto in una foiba, ma per via di un male sottile e permanente: la malinconia. 

Nei suoi testi scolastici di storia, le vicende del confine orientale erano chiaramente trattate? 

Nei libri scolastici non ricordo che si parlasse di quelle vicende. Forse arrivammo a studiare solo l’avvento del fascismo... 

Lei ha incontrato Jan Bernas, un professionista dell’informazione autore di un volume che raccoglie molte significative testimonianza di esuli giuliano-dalmati. Quali impressioni ha ricavato dalla lettura di quel libro? 

Il libro di Jan l’ho letto quattro volte, ed ogni volta è stato fonte di grande stupore ed emozione mista a rabbia. Mi ha colpito perché ho rivisto il metodo di lavoro che anche io ho adoperato per «Centro di Igiene Mentale»e la mia ultima fatica «Mio nonno è morto in guerra», dove ho scritto e raccolto le testimonianze degli ultimi reduci viventi della seconda guerra mondiale. Lo stesso Jan mi ha concesso di pubblicare una delle storie del suo libro. 

Leggendolo, ho avuto la sensazione di trovarmi proprio davanti alle persone che raccontavano. Ma l’impressione più forte, alla fine della lettura, è stata quella di constatare quante sfaccettature abbia l’evolversi di questa vicenda. L’esodo, i campi profughi, l’accoglienza in Italia, i monfalconesi, Goli Otok, i rimasti... E pensare che per cinque anni a Roma, nel tragitto che l’autobus 765 faceva per portarmi al Liceo, c’era una fermata. Vicino a quella fermata c’era un cartello, una specie di targa con su scritto «Quartiere Giuliano Dalmata». Ogni volta che ci passavo davanti, leggevo quel cartello, e nella mia ignoranza mi chiedevo: «Ma questo signor Giuliano Dalmata, chi era?». Meno male che non l’ho mai chiesto a nessuno... Poi negli anni mi sono reso conto di quanti ancora ignorano il senso di quel cartello. Quante persone, giovani e adulti, gente del popolo o sapientoni, si saranno fatte la mia stessa domanda? 

Quando e come la conoscenza di quegli eventi si è mutata in idea di canzone, di testo e di musica? Aspettando il nuovo spettacolo teatrale, cosa ha ritenuto di dover mettere meglio e più in evidenza? 

Probabilmente è stato un senso di vergogna, a spingermi a fare qualcosa. Vergogna per non aver saputo, per tanti anni. Poi, il fortissimo impatto emotivo davanti alle masserizie degli esuli, e la lettura di diversi libri dopo quello di Jan Bernas, mi hanno spinto a realizzare un monologo di teatro civile, genere che “frequento” con passione da 4 anni. Con l’aiuto prezioso di Jan, coautore del testo dello spettacolo, abbiamo lavorato sodo in quest’ultimo anno alla costruzione del racconto, e alla ricerca di una forma di narrazione, un linguaggio semplice che possa appassionare un pubblico giovane. Io interpreterò vari personaggi, tra i quali uno sprovveduto quanto ignorante archivista romano, inviato dal Ministero a fare un inventario di tutte le masserizie. Con lo spettacolo che debutterà a Trieste il prossimo ottobre, non vogliamo certo aizzare polemiche desuete, o essere accusati di faziosità o revisionismo storico. Vorremmo solo utilizzare la musica, le parole, le immagini, affinché lo spettatore esca dal teatro con una sua idea, un bagaglio di emozioni e memoria. E soprattutto, vorremmo che lo spettacolo sia il degno omaggio a tutti gli istriani fiumani e dalmati dimenticati e offesi dalla storia (in questo caso con la “s” minuscola”). 

C’è qualcosa di «1947» di Endrigo nella sua elaborazione del brano dedicato al Silos di Trieste? 

Sicuramente, la cosa che accomuna i due brani, è il senso della malinconia degli esuli. Nel testo parlo di un esule che letteralmente “muore” di malinconia. E questo è stata – a mio avviso – l’altra faccia delle foibe. Quanta gente si è tolta la vita perché non poteva più vedere la propria casa, la propria terra? La canzone «1947» è un piccolo capolavoro di semplicità e poesia, che solo un grande cantautore come Endrigo poteva scrivere. Io ho avuto l’onore di poter incidere un duetto con Sergio, qualche anno prima che morisse, e tutt’ora non c’è un concerto o uno spettacolo dove non ricordi dal palco questo mio grande maestro. 

Nella sua esperienza, anche formativa, vediamo esserci stata attenzione per i temi sociali e umani: cosa le ha trasmesso, come musicista e come uomo, l’incontro con la realtà storica dei profughi italiani che lei ha intraveduto oggi nelle masserizie accatastate allora nel Silos? 

Conoscere questa storia mi ha insegnato innanzitutto la grande dignità del popolo degli esuli e dei rimasti, che silenziosamente e con grande forza d’animo hanno ricostruito in qualche modo la loro vita, lontano dalla loro terra rubata. Il loro esempio ci aiuta a sentirci più “italiani”, nel senso più nobile del termine. (Intervista a cura di Patrizia C. Hansen -ANVGD, Sede nazionale) 

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