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martedì 12 marzo 2013

“Quando gli immigrati eravamo noi”


ITALIANI ALL’ESTERO
Da “L’Opinione” del 12.3.2013

“Quando gli immigrati eravamo noi”

Intervista di Umberto Mucci al professore Stefano Luconi

La storia dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti è alla base di ognuna delle chiacchierate con gli ospiti della nostra rubrica. Fenomeno sociale che connota la presenza italiana negli USA di ieri e di oggi e anche di domani, saperne di più serve non solo a capire gli italoamericani, ma anche noi italiani che viviamo al di qua dell’oceano. Ne parliamo con uno dei più importanti esperti di questo tema, autore di numerose pubblicazioni, il Prof. Stefano Luconi, che insegna Storia degli Stati Uniti d’America all’Università di Padova e Storia dell’America del Nord alle Università di Firenze e di Napoli “L’Orientale”. Per il sottoscritto, è un onore incontrarlo. 

Prof. Luconi, ci può descrivere come si è formata nel corso dei decenni l’identità etnica degli italoamericani? 

Se si pensa soprattutto al periodo dell’emigrazione di massa, che va dalla fine degli anni ’70 del XIX secolo fino all’immediato primo dopoguerra, gli italiani arrivano negli Stati Uniti con un senso campanilistico dell’appartenenza: non si sentono italiani (è un retaggio del ritardo nell’unificazione politica del Paese) ma si identificano con le diverse regioni di provenienza, se non addirittura con le province o i villaggi d’origine. Questo si vede molto bene dagli statuti delle Società di Mutuo Soccorso che nascono in quegli anni, e che hanno una base rigidamente locale poiché vietano l’adesione ad italiani non provenienti dalla località di riferimento delle diverse Società, con l’eccezione di chi ha acquisito quell’appartenenza per matrimonio. Questa auto percezione comincia a mutare in occasione della prima guerra mondiale: c’è un forte potenziamento, da parte dei Consolati Italiani, del nazionalismo in occasione dell’entrata dell’Italia in guerra. Inoltre, dal 1917 gli Stati Uniti combattono a fianco del nostro Paese, e questo porta gli italiani ad un rinnovato orgoglio etnico, anche perché le precedenti pesanti discriminazioni della società statunitense nei confronti degli immigrati sono ridimensionate alla luce del comune sforzo bellico delle due nazioni. Su questa nuova scoperta di un’identità italiana si innesta poi il nazionalismo fascista. Non si tratta di un’identificazione ideologica con il fascismo, che anzi è conosciuto solo in maniera limitata; ma il fatto di essere originari di quella che è ora considerata una grande potenza anche dagli Stati Uniti aiuta gli italiani in America a sentirsi più sicuri e rispettati. Nella costruzione di un’identità, in parallelo a questo c’è l’incapacità della società ospite di cogliere le differenze regionali che invece stanno particolarmente a cuore agli immigrati: nella discriminazione e nel pregiudizio, per gli americani (e per i membri di altre etnie) non c’è distinzione tra un veneto e un abruzzese, sono tutti italiani. Questo fornisce un terreno comune di incontro a chi proviene da regioni diverse: e infatti è proprio dagli anni ’20 in poi che gli statuti delle Società di cui prima si parlava vengono modificati rimuovendo i vincoli di provenienza locale. Ovviamente, questa iniziale frammentazione indebolisce il peso e l’influenza delle comunità italiane, che esistono in quanto tali solo agli occhi degli outsiders: all’interno sono scomposte a tal punto che le famose Little Italies sono molto disomogenee e frazionabili in sottocomunità divise per provenienza regionale o provinciale. Questo accade come conseguenza della “chain migration”: i “pionieri” dell’emigrazione chiamano in America parenti stretti e meno stretti e compaesani. Costoro, una volta giunti, vanno a vivere vicino ai loro predecessori, costituendo aggregazioni di individui che provengono in sostanza da una stessa località. Ciascuna Little Italy, pertanto, racchiude al proprio interno una Little Palermo, una Little Cinisi e così via. C’è un esempio paradigmatico: nel 1927 il partito repubblicano di Philadelphia decide di candidare un italiano alla carica di giudice della contea, per cercare di conquistare il voto italiano. La scelta cade sull’abruzzese Eugene Alessandroni. La propaganda di Alessandroni non è però basata sulla richiesta del voto per il primo giudice italiano a Philadelphia, bensì per il primo giudice abruzzese, col risultato che i voti che prende sono in gran parte da emigrati abruzzesi, e non anche da altre regioni italiane. C’è poi una ulteriore fase di questa trasformazione dell’identità, dopo la seconda guerra mondiale: coloro che in origine pensavano di essere abruzzesi o veneti, dopo aver scoperto di essere italiani scoprono di essere bianchi di origine europea – e parliamo però già delle seconde o delle terze generazioni di immigrati. Quando emergono, con l’accelerazione che conosciamo negli anni ’60, le rivendicazioni degli afroamericani, gli italiani tendono a fare fronte comune con altre minoranze etniche (irlandesi, polacchi, greci) dalle quali erano rimasti molto divisi fino ad allora, trovando un terreno d’intesa. Non si fa riferimento tanto alla questione dei diritti civili e politici: gli italoamericani non hanno obiezioni al loro pieno riconoscimento per la minoranza afroamericana. Il problema è quello della cosiddetta “reverse discrimination”, rappresentata dall’”affirmative action” e da un sistema di quote che garantisce corsie preferenziali agli afroamericani per quanto riguarda gli impieghi pubblici e poi privati, l’accesso alla scuola superiore e poi anche all’università, e che in ciò danneggia chi afroamericano non è, compresi gli italiani. Questo porta ad una nuova coscienza degli italiani e di tutti gli altri appartenenti alle etnie bianche di origine europea. Per concludere, alla fine degli anni ’60 c’è poi un certo revival delle radici italiane – soprattutto nelle terze e nelle quarte generazioni, che vedono lontane le origini povere dei loro avi. Da ciò deriva che nelle scelte fondamentali si è ormai perfettamente assimilati nella cultura americana; e tuttavia, nelle scelte marginali della quotidianità – i gusti alimentari e nell’abbigliamento, la scelta dell’automobile o del posto dove andare in vacanza – si riscoprono con orgoglio le radici italiane. 

C’è in questo percorso il motivo (o uno dei motivi) della storica difficoltà per la comunità italoamericana di parlare con una sola voce? 

Certamente, anche se non è l’unico fattore. Un altro motivo nasce dalla rapida stratificazione sociale degli italiani: per molto tempo i rappresentanti della comunità - che sono medici, avvocati e generalmente appartenenti al ceto medio – hanno interessi che non sempre sono specchio delle esigenze della base della comunità, che a volte è addirittura sfruttata dai suoi rappresentanti e per questo fatica a sentirsi da essi rappresentata. C’è poi una divisione politica, ad esempio tra fascisti e antifascisti durante il ventennio, che magari nasce in Italia e viene poi esportata negli USA. 

Uno degli aspetti più importanti e controversi della vita degli italiani emigrati negli USA riguarda la religione e la celebrazione di feste e riti: ci dice qualcosa di più su questo? 

Ecco, la religione è un esempio del retaggio del campanilismo a cui accennavo prima. Le celebrazioni dei santi e le processioni sono quasi sempre la riproposizione delle medesime cerimonie dei santi patroni dei luoghi di origine, e questo arriva fino ai giorni nostri: basti pensare alla Festa del Giglio che si tiene a Williamsburg, un quartiere di Brooklyn, che è praticamente la riproposizione di quanto avviene a Nola, da dove un tempo molti emigrarono per andare ad abitare appunto a Williamsburg. Si creano vincoli transatlantici che presto trascendono l’aspetto religioso per rafforzare in generale i rapporti tra collettività, che poi si sostanziano in gemellaggi e raccolte fondi nei momenti del bisogno in cui le comunità rimaste in Italia soffrono le difficoltà di un terremoto, un’alluvione, o altre calamità naturali. Questo approccio alla religione ha però anche un lato negativo: il vivere la religione come culto dei santi e le sue relative manifestazioni di esso vengono viste sia dai protestanti sia da altre minoranze cattoliche già presenti in America come una sorta di retaggio del paganesimo. Sono soprattutto gli irlandesi che non gradiscono la supposta eterodossia del cattolicesimo all’italiana. Gli immigrati finiscono così ai margini delle parrocchie, anche a causa di una forte rivalità originata dalla volontà egemonica degli irlandesi, che controllano la gerarchia della Chiesa cattolica in America ben prima dell’arrivo degli italiani e non intendono dividere il potere con i nuovi venuti. Un altro motivo di contrasto con gli irlandesi nasce dalla mancata abitudine degli italiani a finanziare di tasca propria la parrocchia e in generale la Chiesa, poiché giungono da un Paese in cui è lo Stato che provvede a ciò. Per tutti questi motivi, una delle maggiori rivendicazioni degli italiani d’America verso la Chiesa è proprio l’istituzione di parrocchie nazionali per sottrarsi alle discriminazioni che subiscono in quelle già esistenti, dove a volte vengono relegati negli ultimi banchi nelle funzioni se non nei seminterrati. 

Quale fu il ruolo delle donne in un sistema migratorio che all’inizio riguardò soprattutto gli uomini, ma poi vide molte famiglie ricongiungersi negli USA, per vivere comunque in situazioni di grande difficoltà? 

Le donne giocarono sempre un ruolo importante. E’ vero che i flussi iniziali sono composti in prevalenza da uomini soli che vanno negli USA, molti dei quali intendono come temporanea questa migrazione: sono i cosiddetti “birds of passage”. Ma le strategie migratorie sono strategie familiari: si decide insieme in famiglia chi va e chi resta e per quanto tempo. Le donne che rimangono a casa gestiscono le rimesse inviate dai loro uomini: il loro è un ruolo essenziale nel sistema migratorio nel suo complesso. Quando poi iniziano ad arrivare anche loro oltreoceano, le donne danno un grande contributo alla famiglia, oltre a crescere ed educare i figli: gestiscono il vitto e l’alloggio di altri immigrati. Inoltre, anche se i loro uomini sono contrari al loro impiego in fabbrica perché temono la promiscuità tra i sessi, svolgono comunque forme di lavoro a domicilio indispensabili al bilancio familiare soprattutto nell’industria dell’abbigliamento. Alcune donne si distinguono poi nel movimento sindacale. 

I cittadini italiani residenti negli Stati Uniti hanno votato per le scorse elezioni, come fanno da quando è stata riformata la disciplina del voto degli italiani all’estero, ammettendolo anche per posta e dando vita alle apposite circoscrizioni elettorali. Come fu il rapporto con il diritto di voto, e quali furono le scelte elettorali in America, per i nostri connazionali? 

Alla fine dell’800 gli immigrati hanno un atteggiamento di profonda disaffezione nei confronti del voto, dovuta a due ragioni. La prima è che – come già detto - loro ritengono solo temporanea la loro permanenza, per cui non chiedono la cittadinanza americana e quindi non soddisfano il principale requisito per il diritto di voto: anche perché chiedendo quella americana dovrebbero rinunciare a quella italiana. La seconda ragione è una mancanza di esperienza di voto in Italia: le prime elezioni a suffragio universale maschile in Italia sono del 1913, mentre negli Stati Uniti iniziano circa un secolo prima. Molti immigrati non hanno quindi pratica di voto, e c’è inoltre l’ostacolo della lingua: non parlando l’inglese hanno difficoltà a sviluppare un interesse per le campagne elettorali. Le cose iniziano a cambiare nel 1928, quando il Partito Democratico candida alla Casa Bianca Alfred Smith: nato negli USA ma di ascendenza irlandese, Smith è il primo candidato non appartenente né dal punto di vista etnico né da quello confessionale all’establishment WASP (white anglo saxon protestant), che fino a quel momento ha monopolizzato le cariche pubbliche – compresa la Presidenza – per i due maggiori partiti. La candidatura di Smith ha un forte effetto di mobilitazione anche sugli italiani e molti sono spinti a recarsi alle urne per la prima volta: in alcune città la loro percentuale di partecipazione addirittura raddoppia rispetto alle elezioni del 1924. Questo cambio di comportamento porta con sé anche un cambio di preferenza. All’inizio, i pochi italiani che votano prediligono il Partito Repubblicano, per tre motivi: per il timore che un Presidente democratico porti la crisi economica e l’aumento della disoccupazione; per l’associazione che si fa tra il Partito Repubblicano americano e il repubblicanesimo italiano di Mazzini e Garibaldi; perché essendo quello il partito al Governo, sono i repubblicani i referenti istituzionali degli immigrati, cioè coloro i cui favori sono ricompensati col voto il giorno delle elezioni. Con il 1928 gli italiani passano al Partito Democratico, un orientamento che poi si rafforza grazie alle politiche del New Deal di FDR e alla vincente strategia democratica del “balanced tickets”, per la quale si candidano a cariche locali esponenti delle diverse minoranze aggiudicandosi per riconoscenza il voto di quelle minoranze anche nelle elezioni presidenziali. Alla fine della seconda guerra mondiale il comportamento elettorale cambia ancora: gli italiani salgono nella scala sociale, diventano professionisti e si sentono più rappresentati nuovamente dal Partito Repubblicano, anche per reazione al fatto che nei democratici si identificano le istanze del movimento afroamericano. 

Lei ritiene che qui in Italia noi italiani conosciamo a sufficienza la storia dei nostri connazionali emigrati in America? Potremmo forse imparare qualcosa dalle loro vicende? 

Non conosciamo molto di questa esperienza, perché a lungo è stata fatta passare sotto silenzio per un certo senso di colpa da parte della società italiana: il fatto che alcuni milioni di italiani abbiano abbandonato il loro Paese per fame, povertà o disperazione, senza che l’Italia facesse nulla per aiutarli o trattenerli o riportarli a casa, non è certo motivo di vanto. Fino a una quindicina di anni fa, quindi, di queste cose si è parlato molto poco, per cui la percezione dell’opinione pubblica italiana è stata poco professionale e molto eterea e fondata su conoscenze familiari personali, senza un quadro analitico e storico su questo tema. Certo, comprendere di più questi flussi aiuterebbe molto in termini di tolleranza verso coloro che oggi vengono qui da noi e hanno il ruolo che una volta avevano i nostri connazionali: gli stereotipi e i pregiudizi che oggi noi applichiamo a chi immigra nel nostro Paese sono gli stessi che venivano applicati a noi italiani quando gli emigrati eravamo noi. (Umberto Mucci -L’Opinione delle Libertà del 12 marzo 2013 /Inform)

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