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mercoledì 24 aprile 2013

Antonio Bruzzese: “Argentina fine del mondo?”


INTERVENTI
Antonio Bruzzese: “Argentina fine del mondo?”

BUENOS AIRES - Ha suscitato molta impressione l’affermazione dell’italo-argentino, neo-pontefice Francesco, per molti anni Arcivescovo di Buenos Aires, di provenire dalla “fine del mondo”. 

Tradizionalmente l’immagine della fine del mondo ha avuto connotazioni temporali. Nel passato non fu solo un sentimento più o meno occasionale, espresso in lugubri e pittoresche profezie dell’Europa medievale, ma si ricollegava ad una più generale visione dell’esistenza dell’uomo (e del mondo) simile ad un gomitolo che si svolge andando irrimediabilmente verso la fine più o meno imminente. 

Effettivamente l’Europa, dopo la caduta dell’impero romano alla fine del V secolo, aveva vissuto diversi secoli di stagnazione e di crisi, che suscitavano frequenti pensieri di rassegnazione e di angoscia. 

Invece l’italo-argentino neo-Papa Francesco non ha pensato all’Argentina in termini temporali di fine del mondo, ma di distanza dalla centralità, sentendosi proiettato da una periferia del mondo al centro mondiale della cristianità 

Nel seguito del suo discorso si intravede pure il sentimento, mai sopito, di lontananza dell’emigrato italo-argentino dalla sua terra di origine, dalle valli e dai monti del Piemonte, immerso nelle distese sconfinate dell’Argentina, terra promessa in realtà svanita. 

Ricca ma con diseguaglianze crescenti. Inflazione senza controllo, assistenzialismo diffuso, populismo fino al calcio para todos, insicurità e corruzione. Famose le reprimende dell’Arcivescovo Bergoglio sui dati reali della povertà. Difficile il suo rapporto con il potere. 

Da ricordare un discorso durante il quale parte dei parlamentari presenti abbandonarono l’aula. 

La sua umiltà e coerenza hanno costruito una chiesa molto solida. Ho notato come in occasione della disastrosa alluvione dei giorni scorsi a La Plata, vi fosse una differenza abissale tra le parrocchie mobilitate, centinaia di scout a caricare camion e il punto di raccolta del governo a lato del congresso; poche persone e cose . Lapidario il commento di un tassista: la gente si fida della chiesa e non dei politici. 

L’Argentina ha dato a milioni di lavoratori emigrati (e tra questi tantissimi italiani) qualche anno, al massimo qualche decennio di benessere, li ha accolti con i suoi riti festosi e malinconici, con i suoi riti del tango e del calcio. 

Da troppo tempo non c’è più avvenire. Le crisi (e le promesse mai mantenute di rinascita) si susseguono da oltre mezzo secolo. 

Da diversi decenni , milioni di italo-argentini vivono nella nostalgia e nella ristrettezza, molto spesso addirittura nella miseria: qualche pesos di pensione argentina, a volte qualche euro di pensione italiana, decurtata e deturpata da un sistema di cambio ufficiale, fatto apposta per togliere il più possibile a chi ha già quasi niente. Per tanti … neppure questi spiccioli ! 

Malgrado la massiccia discendenza italiana – oltre il 60% – si avverte una sorta di non riconoscimento dell’apporto italiano all’Argentina . 

Il 23 aprile la manifestazione per non trasferire la statua di Cristoforo Colombo da Buenos Aires a La Plata. Un errore politico e culturale grande, una offesa alla storia e a noi tutti. La statua venne donata dagli italiani nel 1921 e l’accostamento tra Colombo e i conquistadores è un affronto insopportabile. 

L’Italia continua a dimenticare gli Italiani d’Argentina. Il Paese non cessa di declinare. Intere generazioni di giovani sono state sacrificate e private di avvenire. Le imprese straniere scoprono il Messico, Perù, Brasile e Cile e quando possono lasciano l’Argentina. L’autarchia nella quale è chiuso il paese non può dare alcun sviluppo. 

Il sistema delle PYME , oltre il 75% del tessuto produttivo è in grande difficoltà. 

La traduzione in termini politici di una complessa miscela di speranza e di disperazione, di inedia e di attivismo, di senso civico e di corruzione, di organizzazione e di spontaneismo, ha dato luogo al fenomeno tutto argentino del peronismo, suscettibile di trasformarsi, a tratti, perfino in dura dittatura o in parentesi di populismo sociale, mai durature e sempre poco incisive. 

La parità (breve e finta ) del pesos argentino con il dollaro, le brutali e continue svalutazioni, il crollo della finanza pubblica, hanno fiaccato il Paese fino a farne quella realtà che, bonariamente, Papa Francesco chiama “fine del mondo”. 

Con l’immagine della “fine del mondo” Papa Francesco ci ricorda una realtà diversa, fatta di radici antiche, ma inaridite, di marginalità non spaziale e neppure temporale, ma di declino accentuato e forse inarrestabile. 

Questa marginalità esiste oggi in una parte importante dell’Europa, in particolare nella parte di Europa affacciata sul Mediterraneo, diventata periferia, quasi un peso per il resto dei Paesi dell’Unione. 

La crisi della Spagna, della Grecia, dell’Italia, di Cipro non riguarda solo la finanza pubblica o la crescita negativa del PIL, ma tocca i legami sociali, la cultura, la moralità e segna un’accentuata posizione di marginalità rispetto al resto dell’Europa. 

Negli anni ’50 il trattato di Roma, che inaugurò l’inizio comunitario della nuova Europa, ebbe un carattere fortemente utopico: il desiderio di pacificazione soppiantava ogni idea di confronto bellico, davanti agli immensi cumuli di macerie si pensava alla ricostruzione, all’isolamento dei campi di concentramento si contrapponeva la libera circolazione dei lavoratori. 

Il Lussemburgo, con i suoi 300.000 abitanti, sedeva al tavolo delle decisioni, pariteticamente, con Paesi aventi milioni di abitanti, Francia e Germania lavoravano insieme per un futuro comune, a soli dieci anni di distanza dal terribile e sanguinoso confronto militare per la supremazia in Europa e nel mondo. 

Con l’allargamento agli attuali 27 Paesi l’Europa ha consolidato e sviluppato il progetto iniziale, ha varato una moneta comune, sta cercando nuove forme istituzionali. 

Eppure da qualche anno si stanno verificando nell’Unione Europea preoccupanti fenomeni di marginalizzazione, suscettibili di riproporre quella distanza sociale, economica e culturale che per diversi secoli aveva segnato una frontiera tra i Paesi mediterranei ed il Nord europeo. 

C’è un leghismo in Italia, che da oltre un ventennio propone di istituzionalizzare, con la riforma della Costituzione, la distanza socio-economica tra Nord e Sud. Ma c’è anche una sorta di leghismo in Europa, che assegna ai Paesi economicamente più forti la direzione politica dell’Unione. 

La globalizzazione avrebbe potuto rinsaldare i vincoli creati a fatica con il progetto di Europa inaugurato negli anni ’50 dal Trattato di Roma. Sembra invece che cominci a farsi strada nell’Unione la convinzione di due “inevitabili” velocità delle economie, della debolezza “ fatale” della parte meridionale dell’Europa. 

Le condizioni imposte ai Paesi più deboli per il risanamento delle finanze pubbliche non mirano ad accelerare lo sviluppo dei Paesi in crisi, ma sono dettate soprattutto dalla volontà di salvaguardare la solidità di chi si trova già in migliori condizioni. 

Questa marginalità sociale rende precario il progetto di unificazione europea e mette a dura prova la coesione sociale proprio in quei Paesi che, per uscire dalla crisi, hanno bisogno di maggiore partecipazione alla vita politica e sociale. 

Il diffuso sentimento “anti-politico” che sta caratterizzando la vita sociale italiana, se è comprensibile, data la presenza di dilaganti fenomeni di corruzione, trova tuttavia le sue radici più profonde in quella realtà che Papa Francesco chiama “fine del mondo”, intesa come distanza e marginalità rispetto ad un centro del mondo, incontrollato ed incontrollabile. 

Questa fine non è semplicemente situazione di sottosviluppo, nel senso dato un tempo dalla geo-politica al c.d. “terzo mondo”. 

E’ piuttosto la delusione di milioni di giovani, spesso anche molto scolarizzati, rimasti senza prospettive di lavoro, di milioni di anziani privi di risorse, a volte anche minime, dopo una vita di lavoro, di malati che stentano a ricevere cure adeguate, di cittadini che non riescono ad esprimere democraticamente la loro volontà. 

Papa Francesco venendo a Roma aveva certamente ancora davanti agli occhi le periferie di Buenos Aires, i poveri che raccolgono i cartoni nelle strade, i pensionati che stentano a volte anche a comprare un pezzo di pane, i poveri, i giovani disoccupati, i carcerati che vivono in condizioni disumane. 

Non si tratta di distanza temporale o spaziale. Si tratta di marginalità, di difficoltà a sperare, di tunnel interminabili, di nottate che non passano mai. 

E’ questa probabilmente la fine del mondo cui alludeva papa Francesco, a Buenos Aires, come ad Atene, a Napoli come a Madrid. 

E’ la fine del mondo di milioni di lavoratori italiani, emigrati per trovare lavoro, dignità e benessere, per finire invece negli stenti quotidiani, dimenticati due volte dal loro Paese, quando sono partiti e quando non sono tornati. 

E’ la fine del mondo ! (Antonio Bruzzese* -Inform) 

* CNA Epasa Argentina

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