STUDI
ITALOAMERICANI
“We the Italians.com” intervista il
prof.Francesco Durante
La letteratura Italoamericana delle
prime generazioni: una grande sorpresa
Conoscendo
l'esistenza di alcuni volumi sulla produzione letteraria degli Italiani in
America – dal 1776 alla seconda guerra mondiale - scritti da un Professore
napoletano di nome Francesco Durante, gli abbiamo chiesto di poterlo
intervistare, senza sapere che ci avrebbe fatto scoprire un mondo. Un mondo
eccezionale, informazioni interessanti e conosciute da pochissimi, che mettono
in luce un importantissimo aspetto dell'esperienza italiana negli Stati Uniti.
Parlarne
con Francesco Durante, unico titolare in Italia - presso l'Università Suor
Orsola Benincasa di Napoli - di una cattedra di studi italoamericani, senza
dubbio colui che più sa in Italia e probabilmente nel mondo di letteratura dei
nostri connazionali in America, è stato come avere a che fare con
un'enciclopedia vivente. Un'esperienza emozionante, difficilmente trasferibile
a terzi: speriamo comunque di riuscire a trasmettere a chi ci legge qualcosa
del fantastico viaggio nella produzione letteraria degli Italiani in America
condotto insieme a lui, al quale va il nostro sentito ringraziamento. E a chi
legge, va la raccomandazione di comprare la nuova edizione del suo libro
Italoamericana, negli Stati Uniti, il prossimo anno.
Prof.
Durante, lei ha scritto alcuni prestigiosi volumi a descrizione di un
fondamentale aspetto dell'esperienza italiana in America: la letteratura. Le
sue opere costituiscono il lavoro definitivo con riferimento alla produzione
letteraria, sconosciuta prima dei suoi libri, dei nostri connazionali che
andarono in America, prima e dopo la grande emigrazione. Ce ne parla brevemente?
Io
ho iniziato ad occuparmi di questi temi grazie a John Fante. Negli anni '80,
dopo aver letto "Chiedi alla polvere" – Fante era stato pubblicato
già da Elio Vittorini negli anni '40, ma poi fu dimenticato e riscoperto solo
più tardi – mi fu chiesto di tradurre per Mondadori il suo "Dreams of
Bunker Hill". Ho poi tradotto sette libri di John Fante: e nella sua opera
è come se lui desse voce a suo padre, un muratore abruzzese emigrato negli
Stati Uniti. In questo Fante è il tipico narratore di seconda generazione:
testimone della vita in famiglia di coloro ancora sospesi tra due mondi, spesso
analfabeti. Leggendo Fante dunque mi chiesi: è possibile che questa prima
generazione noi la conosciamo soltanto attraverso i racconti della generazione
successiva? Iniziò così questa mia ricerca, che mi permise di scoprire un mondo
fatto di libri e di quotidiani, di canzoni e di poesie, di teatro e di scritti
politici. C'erano eccome, scrittori che scrivevano in italiano per un pubblico
italoamericano. Spesso il materiale cartaceo che ho rinvenuto si è dimostrato
estremamente fragile: un secolo per un tipo di carta così delicata ma anche
molto modesta, fa sì che a volte io sia stato l'ultimo a poter consultare
alcuni libri o giornali. Credo di aver fatto un buon lavoro, che però non è
ancora terminato: c'è ancora tanto da scoprire, e molti documenti sono
rarissimi. Ad esempio, il "Diario di un emigrato" di Camillo
Cianfarra, probabilmente il più raro libro italoamericano, esiste in un'unica
copia, che sta a Minneapolis nell'Immigration History Research Center, dove io
ho lavorato insieme a Rudy Vecoli - il noto professore italoamericano che fondò
quell'istituzione: è il centro che contiene la più straordinaria parte del
materiale italoamericano di questo tipo, che a volte non ha nulla da invidiare,
in termini di qualità letteraria, alle produzioni che all'inizio del secolo
nascevano e tanto successo avevano in Italia. Questo mi ha permesso di essere
titolare dell'unica cattedra qui in Italia di studi italoamericani,
all'Università Suor Orsola Benincasa a Napoli, alla quale ho donato tutta la
mia biblioteca italoamericana: e devo dire che c'è molto interesse per questi
temi, sono molte le mie studentesse che poi vanno a fare ricerca negli archivi
in America.
I
miei libri su questo argomento sono i due volumi di Italoamericana, la raccolta
uscita per Mondadori col primo volume nel 2001, che tratta della letteratura
dei nostri emigrati in America dal 1776 al 1880, e col secondo volume nel 2005,
coprendo il periodo che va dal 1880 al 1943. Oggi non sono più in commercio,
anche se ebbero un bel successo a suo tempo: sono volumi di quasi mille pagine
ognuno, che avevano un costo non agevole per una diffusione di massa. Un
piccolo editore napoletano, Pironti, ha recentemente capito che si poteva
tornare su questi temi con una nuova collana dal nome "Storia e
letteratura degli italiani negli Stati Uniti", approfittando anche dei
diversi aggiornamenti in termini di contenuti e di bibliografia, facendo dieci
volumi più piccoli e quindi di prezzo più accessibile: ora è uscito il sesto
volume di questi dieci (il primo ad uscire, ma il sesto nel piano dell'opera)
che si chiama "La scena di Little Italy" e parla di teatro, musica e
dintorni nelle Little Italy. C'è anche un altro volume, in italiano, idealmente
il terzo della serie Italoamericana, in ristampa da quest'anno, che tratta di
testi usciti negli anni '30 e '40: si chiama "Figli di due mondi".
Nel
2014 poi uscirà negli Stati Uniti per Fordham University Press la versione
aggiornata e tradotta in inglese del volume 2 di Italoamericana, quindi quello
riguardante gli anni dal 1880 al 1943.
Può
descriverci qualcuna delle tante curiosità letterarie interessanti ma pressoché
sconosciute ai più, tra quelle contenute nei suoi libri?
La
figura più interessante della prima generazione è sicuramente Bernardino
Ciambelli. E' uno scrittore a tempo pieno, non episodico: quando iniziai la mia
ricerca trovai il suo nome con riferimento a tre titoli, che già erano
conosciuti. Dopo la mia ricerca i titoli diventarono 25. E' un autore
straordinariamente interessante per capire la New York di fine '800: Ciambelli
non racconta solo gli italiani, ma le grandi opere, i sotterranei, la ferrovia
sopraelevata, la metropolitana, i palazzi, i quartieri multietnici. Sono trame
a tinte forti: i suoi romanzi si chiamano "I misteri di Mulberry
Street", "I drammi dell'emigrazione", "La trovatella di
Bleeker Street" e così via, per cui racconta le sale da oppio di
Chinatown, i bordelli irlandesi, i negozi del quartiere ebraico, oltre la
Little Italy: uno straordinario mosaico metropolitano. Ciambelli fu anche
giornalista: muore – da decano dei giornalisti italiani a New York - nel 1931
alla sua scrivania al "Corriere d'America" di Luigi Barzini, dopo
essere divenuto un molto influente attivista democratico per poi passare al
fascismo. Pubblica solo in America, ma fa in tempo a formarsi in Italia prima
di andare via: probabilmente a Napoli (lui era di Lucca), che negli anni '80
del XIX secolo era la capitale italiana del giornalismo.
Un
altro che ha una storia eccezionale è Riccardo Cordiferro, forse il poeta per
eccellenza della eroica Little Italy del Lower East Side. Il suo vero nome era
Alessandro Sisca, ed era calabrese: ed è – tra mille altre cose – l'autore di
una delle più famose canzoni napoletane, Core 'ngrato, che però è in effetti
... newyorchese, non napoletana. E' una tipica canzone dell'emigrazione, nel
senso che è del 1911 ma è scritta come se si fosse nella fine dell'800:
l'apertura operistica, il romanticismo esasperato, la descrizione dell'Italia
com'era quando partirono i primi italiani della grande emigrazione, destinata
nell'immaginario italoamericano a rimanere sempre la stessa, quella dalla quale
fuggono. Cordiferro ha tutti i connotati dell'emigrato di prima generazione: è
un uomo formato con l'idea di un romanticismo rivoluzionario
post-risorgimentale; di amori travolgenti – una moglie ma tante amanti; di un
atteggiamento di sfida sul piano politico (va in galera per diverso tempo per
le sue idee anarchiche, che non cambieranno per tutta la sua vita). Ha anche un
modo spettacolare di usare le parole, essendo stato un bambino prodigio: è lui
il fondatore de "La follia di New York", settimanale che poi dura un
secolo; ma dirige anche giornali come "La sedia elettrica", con una
retorica populista anche un po' adolescenziale ed immatura ma piena di
sentimenti e passione. E' dunque portatore di un'italianità "da
manuale", con tutti i difetti ma anche tutte le virtù dell'italiano
com'era immaginato allora in America.
Il
terzo personaggio che voglio menzionare è Carlo Tresca, a cui Max Eastman negli
anni '30 dedica una copertina del New Yorker col titolo "Carlo Tresca,
public enemy number one": allora è il più pericoloso radical d'America.
Anche lui è molto italiano: molto fascino, molte amanti, tutte miliardarie.
Giornalista, anarchico, viene ucciso dopo aver partecipato a diversi scioperi
sfidando le forze dell'ordine e arringando le folle con grande ardore. Non è
chiaro chi sia il mandante: se la mafia, magari su imbeccata di Gene Pope (il
proprietario del Progresso Italo-Americano, accusato da Tresca di essere
"un gangster e un racketeer"), se i fascisti, ovvero se i comunisti,
e precisamente gli stalinisti contro cui Tresca, a suo tempo, si era scagliato
in occasione delle durissime polemiche sulla guerra civile in Spagna.
Quali
sono i temi che principalmente ricorrono nella produzione letteraria degli
italiani in America? C'è un trend che si modifica col passare degli anni e con
l'evolversi degli avvenimenti che li caratterizzano?
Ovviamente
una quota di autobiografia c'è sempre. Prima della grande emigrazione in
America si arrivava solo con i velieri: era un viaggio, come dire, "dalla
terra alla luna". Nel primo volume di Italoamericana io racconto storie di
gente che ha fatto sette volte il giro del mondo: intraprendenza e spirito di
avventura eccezionali, un'emigrazione d'élite e non di massa, fatta ad esempio
di profughi politici che formano cellule della Giovine Italia di Mazzini.
Raccontano sé stessi, fanno attività di proselitismo, si integrano più
facilmente perché hanno una elevata cultura e provengono da una terra che in
America aveva grande considerazione. Molti dei Padri Fondatori conoscevano
l'italiano, e tutta l'iconografia americana è mutata dall'esperienza
dell'antica Roma, con l'aquila e il motto in latino; inoltre c'è in America una
fortissima simpatia per le guerre risorgimentali. Quando Garibaldi arriva a New
York nel 1849 è come se arrivasse la persona più popolare del mondo, viene
accolto con tutti gli onori e non va nell'albergo di lusso che la città gli
aveva destinato, preferendo umilmente la casa di Meucci a Staten Island: questo
non fa che aumentare la considerazione nei suoi confronti. Poi, questo
"innamoramento" verso l'Italia scende notevolmente quando cominciano
ad arrivare gli emigrati, che raccontano di un'altra Italia.
C'è
però una continuità tra le storie pre-1880 e quelle più povere e drammatiche
della grande emigrazione. Per esempio, Lorenzo Da Ponte è quasi un prototipo
dell'emigrato. Lui è un grande poeta, a Vienna, di altissimo profilo e notorietà,
che a 50 anni (un'età molto avanzata per quel periodo), inseguito dai
creditori, se ne va in America. E lì si deve inventare una vita completamente
nuova: da poeta riverito diventa un bottegaio a Philadelphia, rifondando la
propria esistenza salvo poi riuscire ad affermarsi come direttore di una scuola
italiana a New York e poi iniziatore dell'esportazione della musica classica in
America. C'è quindi un percorso di un intellettuale che, cosa rarissima,
comincia a fare lavori manuali e solo dopo riprende a fare cose più prestigiose
e meno povere: anticipando, in questo modo, l'epopea di tutti coloro che
salirono faticosamente la scala sociale americana, o lo permisero ai loro
figli, grazie a lavori umili e molto poco intellettuali. L'ascensore sociale
americano gli permise di risalire, cosa che in Italia non avrebbe potuto
accadere.
I
temi della letteratura dell'emigrazione diventano allora quelli del "come
ho fatto l'America", ovvero come l'ho costruita: chi fa il viaggio si
sente legittimato a raccontare le sue gesta, perché sa di aver fatto qualcosa
di importante e coraggioso. C'è il ricordo del paese lontano; ma c'è la
capacità di raccontare il nuovo mondo, in particolare nella scena teatrale
della New York del primo novecento, come ad esempio in Eduardo Migliaccio – in
arte Farfariello – che avendo visto la macchietta napoletana a Napoli ha la
grande intuizione di riproporla a New York ambientandola lì nel mondo degli
italoamericani, inventando personaggi come "l'ondertecco" (l'impresario
di pompe funebri), oppure "il cafone".
Un
altro tema molto presente sono le donne. Non c'è paese al mondo in quel momento
in cui la donna sia più emancipata di quanto lo sia in America. Oppure temi in
cui l'America si differenza rispetto all'Italia. Ad esempio, ne "I misteri
di Mulberry Street" c'è questo paradosso: al centro della storia c'è una
donna italiana sposata con un criminale, il quale fugge in America. Lei emigra
per raggiungerlo, ma quando arriva a New York si rende conto di quanto lui sia ormai
spregevole e compromesso con la giustizia. Nel frattempo lei si innamora di un
altro: ma essendo sposata in Italia, dove– a differenza dell'America – non ci
si può divorziare, non può coronare il suo sogno d'amore. Al contrario, però,
in America c'è la pena di morte, mentre in Italia no: per cui Ciambelli qui
descrive come su un aspetto un paese sia più progressista dell'altro, e come
questa situazione si ribalti sull'altro aspetto.
Discriminati
dai locali, descritti come criminali e ignoranti, gli italiani della grande
emigrazione furono riscattati da alcuni artisti e sportivi, che dimostrarono la
nostra capacità di fare molto altro in più dei durissimi lavori manuali. Ci
furono nella letteratura nomi che parimenti li resero orgogliosi della loro
provenienza?
No,
non ci sono stelle di prima grandezza apprezzati così anche dagli americani,
nella prima generazione: la quale, ricordiamo, scrive in italiano. Le arti
performative sono quelle che cominciano a dare soddisfazione con la seconda
generazione: d'altronde gli italiani cattolici leggono poco, la loro religione
glielo ha vietato, a differenza – per rimanere nell'emigrazione in America -
degli ebrei, fra i quali tutti sanno leggere e scrivere, cosa che non avviene
tra gli italiani. Ecco che quindi tra gli italiani sono la musica e il teatro a
prendere piede più facilmente. Il primo autore che in ordine cronologico può
essere citato è Frank Capra, che scriveva anche in italiano sui giornali
dedicati ai nostri emigrati. Una superstar è Rodolfo Valentino, che pubblica un
libro di poesie in inglese: ma è ovviamente il cinema che lo rende famoso. La
prima vera fiammata di successo arriva con Pascal D'Angelo, un emigrato che
veniva da Sulmona dove faceva il pastore. Abbandonato l'Abruzzo e le sue
pecore, girando col vocabolario d'inglese in tasca e costringendosi ogni sera
ad imparare qualche nuova parola nella sua nuova lingua, a metà degli anni '20
vince un concorso nazionale di poesia e pubblica in inglese un libro che si
chiama "Son of Italy". Muore poverissimo poco dopo, ma in quel
momento diventa un caso nazionale, il primo che arriva all'attenzione del
grande pubblico.
E
invece, i tanti giornali in lingua italiana fondati e distribuiti presso le
comunità italiane, che ruolo ebbero?
Per
la prima generazione la stampa periodica italiana fu fondamentale. I romanzi di
Bernardino Ciambelli, ma anche tante poesie e altri testi, venivano pubblicati
in prima battuta sui giornali, a puntate. E' una miniera di informazioni,
purtroppo difficilmente accessibile perché le collezioni sono tutte lacunose,
perché come dicevo è materiale estremamente fragile, e perché non è online; c'è
materiale microfilmato, ma non è completo ed è sparso tra varie sedi come
Minneapolis, Boston, New York, Firenze e altre. E' anche vero che l'Italia non
si è mai preoccupata di valorizzare questa produzione letteraria, anzi al
contrario: si è sempre sostenuto che le grandi cose fatte dagli italoamericani
fossero da ricercare nell'industria, nelle cose manuali, ma non nella
letteratura. Invece, rispetto alla produzione letteraria italiana di
quell'epoca, che veniva realizzata da intellettuali d'élite abbastanza lontani
dalla vita di tutti i giorni, in questi testi c'è la vita, concreta e reale, la
sofferenza, le esperienze di un fenomeno drammatico e appassionante come
l'emigrazione. Snobbarli come è stato fatto, ritenendoli di poca qualità, non è
stata operazione particolarmente avveduta.
Anche
dal punto di vista della letteratura, le Little Italies ebbero una grande
importanza ...
Le
Little Italy erano da un lato un ghetto, perché permettevano agli emigrati di
continuare a parlare italiano, anzi il dialetto, perché non c'era bisogno di
imparare l'americano; dall'altro erano però anche i luoghi aggregazione dove si
faceva la nuova Italia, dove gli emigrati si integravano fra di loro passando
da calabresi o napoletani o siciliani a italiani, prima di diventare poi
americani.
Se
lei dovesse citare i più importanti scrittori italoamericani del ventesimo
secolo, quali sono i nomi che le vengono in mente?
In
questo momento probabilmente il più grande scrittore americano è di origini
italiane, Don De Lillo. Richard Russo ha vinto il Premio Pulitzer pochi anni
fa. Ci sono tutti i nomi italiani della beat generation: Lawrence Ferlinghetti,
Diane Di Prima, Gregory Corso. C'è Philip Lamantia; c'è Mario Puzo. E
naturalmente c'è John Fante.
Noi
riteniamo che qui in Italia sia colpevolmente ancora marginale la conoscenza
dell'esperienza italiana in America nel corso dei decenni. La loro letteratura
avrebbe potuto, o ancora potrebbe, avere un ruolo fondamentale per questa
divulgazione?
Sono
veramente pochissimi i casi in cui gli scrittori italiani della prima
generazione sono stati pubblicati in Italia. Uno in particolare, Paolo
Pallavicini, fu pubblicato: era un uomo del nord Italia emigrato in California,
quindi in quella che all'epoca veniva chiamata la colonia modello, dove gli
italiani erano meglio integrati perché non erano ammassati nelle grandi città,
ma ad esempio molti lavoravano in agricoltura o nei vigneti. Successivamente,
le seconde e terze generazioni molto spesso hanno prodotto opere che
raccontavano l'esperienza della prima generazione: si pensi a Mamma Lucia di
Mario Puzo, una tipica saga che parte dall'800; o Umbertina di Helen Barolini,
che addirittura era una saga delle donne italoamericane; o Streets of Gold di
Evan Hunter, pseudonimo di Ed McBain, che a sua volta è lo pseudonimo di
Salvatore Lombino, originario della Basilicata. Persino Don De Lillo in
Underworld, pur non essendo certo un narratore etnico, parla del Bronx
italiano. Sono queste seconde e terze generazioni che si sono incaricate di
raccontare queste storie, sia in America che in Italia, finalmente pubblicate.
In fondo anche il cinema ha fatto questo: si pensi alla saga del Padrino. Alla
fine degli anni '60, in piena era di rivendicazioni anti familiste, esce in
America un libro in cui la famiglia è il centro di tutto: poco importa che sia
una famiglia criminale, perchè rimanda comunque a una epica italiana che tiene
tutto insieme e riesce ancora a salvare questa cellula fondamentale della
società.(Umberto Mucci- www.wetheitalians.com
/Inform)
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