CINEMA
Un
articolo di Carlo Di Stanislao
Lunghi e corti (con presenze) per Venezia
in chiusura
Dieci
minuti di applausi scroscianti alla fine della proiezione di “Sacro GRA” di
Gianfranco Rosi, l'ultimo film italiano in concorso alla Mostra del Cinema di
Venezia, storia con personaggi surreali nel luogo-non luogo del Grande Raccordo
Anulare che, per un’ora e mezza si trasforma in un compendio di varia umanità,
come quella che si incontrava, un tempo, solo nelle periferie della grande
città.
Nell’ambito
di un’operazione che quantomeno prosegue il discorso intrapreso da La grande
bellezza di Sorrentino, Rosi “zoomma” su quella verità di fondo che si
vuole in qualche modo imprimere su pellicola. Non solo perché, banalmente, il
suo è un documentario, ma soprattutto per il sano distacco da quel contesto non
di rado grottesco, che non viene né esaltato né demolito ma semplicemente
registrato. Un po’ tenero, un po’ spietato, il ritratto di “Sacro GRA” è in
ogni caso verace, anche se magari non del tutto genuino (ma ci sta). Una
piacevole sorpresa, oltre che ennesima scommessa vinta per via di un rischio in
linea col coraggio mostrato dai selezionatori quest’anno.
Bellissimo
anche “Stray dogs”, film in concorso (e tra i favoriti) del taiwanese Tsai
Minng-Lian, realizzato con una serie di piani-sequenza impeccabili per creare
una sorta di discontinuità narrativa, con la fotografia al centro della
rappresentazione, con luce, colore, angolazione, tessitura di immagine e
durata di ogni singola inquadratura, accuratamente studiati affinché la forma
diventi contenuto, come accade nel grande cinema da Wells a Kurosawa.
In “Stray
Dogs” l'obiettivo più importante, dalla sceneggiatura alle riprese e al
montaggio, è stato limare il racconto, abbandonare la cosiddetta
"trama". Non c'è alcun nesso diretto tra una scena e la scena
successiva, quindi si ha la sensazione che non ci sia un inizio né una fine, ma
al tempo stesso si percepisce una rottura nell'immediatezza che è molto
vitale. Ogni scena è un'azione completa dell'attore e avviene in tempo
reale, cogliendo la naturale alternanza di luce e ombra e i cambiamenti dei rumori
in sottofondo.
In
conferenza stampa ha detto il giovane regista che anche se il mondo sembra
cambiare costantemente, tutti i suoi problemi restano sempre la povertà,
la fame, la guerra, il potere, il desiderio, l'avarizia, l'odio ed ha aggiunto
che mentre girava questo film pensava spesso a un'espressione di Lao Tze:
"Il cielo e la terra non agiscono per benevolenza; trattano tutte le cose
come cani di paglia" [Tao Te Ching, Cap. 5].
Per cui
ha immaginato molte vicende intrecciate di poveracci e dei loro figli,
che sembrano abbandonati dal mondo, pur dovendo comunque vivere.
Ci
ha suggerito l’autore che il film ricorda per molti verso uno dei suoi film
preferiti: “La morte corre sul fiume”, con un fratello e una sorella che
sfuggono dalle grinfie di Robert Mitchum, salgono su una barca e si lasciano
trasportare dalla corrente: tutte immagini che ci rimandano a remoti e
misteriosi sogni d'infanzia. Ed è questo tipo di cinematografia, estremamente
pura che permea “Stray Dogs”, dalla prima al’ultima inquadratura.
In questo
film, fra le molte cose (come le canzoni tradizionali cinesi, care al
regista) c'è anche il volto di Lee Kang-Sheng, che inizia a gonfiarsi
quando passa la quarantina, e il suo corpo che man mano sfugge al controllo e
ricorda lo spaventoso e deforme personaggio di Robert Mitchum nel film diretto
nel ’55 da Charles Laughton, trasposizione de “Il nudo e il morto” di Mailer, oggetto di culto di
molti cinefili fra cui, evidentemente, Ming-Lian e già citato apertamente
da Neil Jordan nel suo “In
compagnia dei lupi”.
Tsai
Ming-Liang è originario della Malesia, ma è diventato uno dei maggiori registi
di Taiwan. Un autore molto noto il cui Aiquing wansui (Vive l’amour,
1994) ha vinto il Leone d’Oro alla mostra di quell’anno. Con il passare del
tempo ha sempre più raffinato e spinto all’estremo il suo stile fatto di
lunghissimi piani sequenza, sequenze buie filmate sotto scrosci d’acqua
continui e immagini ferme mantenute tali per molti minuti. Sono caratteristiche
che segnano opere suggestive come Dong (Il buco, 1998), Bu san (Ultimo
spettacolo al cinema Dragone, 2003) e che ritroviamo in Jaojou (Cani
randagi). Il film si apre con una sequenza lunga oltre gli otto minuti in
cui compare una donna che si pettina guardano i figli che dormono e si procede
sulla medesima strada e con lo stesso ritmo seguendo il padre dei pargoli che,
dopo averli sottratti alla madre, vive di piccoli lavori, ad esempio fa l’uomo-
cartello per la pubblicità di un’immobiliare all’incrocio di una strada super
trafficata e, ovviamente, sotto la pioggia. Di notte il terzetto trova rifugio
in una casa abbandonata, mentre la madre – impiegata in un supermercato
alimentare – continua a cercare i ragazzi e il marito. Alla fine ci sarà
un’effimera ricongiunzione della famiglia in occasione del compleanno
dell’uomo, ricongiunzione siglata da un’immagine quasi fissa di moglie e marito
– l’uno alle spalle dell’altra – che guardano un affresco che raffigura la riva
pietrosa di un fiume o di un lago. Quest’immagine dura oltre i quindici minuti
e sintetizza la condizione di blocco in cui si sono venuti a trovare questi
cani randagi, veri detriti umani dello sviluppo economico forsennato che ha
segnato anche Taipei. E’ un film di non facile visione e di ardua lettura, ma è
anche un esempio del migliore cinema contemporaneo. Qualche collega non ha
gradito il modo come il regista guida il racconto ravvisandovi una sorta di
maniera. Noi, al contrario, vi abbiamo visto un segno di coerente continuità
con quello che continua ad essere uno degli autori più interessanti del
panorama contemporaneo.
Ieri, a
Venezia, anche “La jalouise” di
Philippe Garrel, girato nel solito bianco e nero garrelliano, che vede il
trentenne, squattrinato attore teatrale (il figlio di Philippe, Louis, già
interprete di “The dreamers” di Bertolucci) vivere una storia d’amore con una
donna. L’uomo ha una figlia nata da una relazione con un’altra ed ora è
follemente innamorato della nuova compagna (Anna Mouglalis), anche lei attrice,
ma senza lavoro. L’uomo fa di tutto per trovarle una parte, ma invano. La
donna, intanto, lo tradisce, così l’uomo si sparerà un colpo al petto, ma la
pistola gli sfugge di mano e, invece di colpire il cuore mortalmente, finirà
con un polmone perforato.
Il film è
molto bello e rischia di vincere, soprattutto perché Bertolucci presiede la
giuria. Quando infatti Bernardo Bertolucci nel 1983 presiedette per la prima
volta la giuria del Concorso di Venezia premiò “Prenom: Carmen” di Jean-Luc
Godard dicendo che uno dei suoi maestri della Nouvelle Vague non aveva mai
vinto e che era giunta l’ora. Leone d’Oro per diritto di carriera per un
Bertolucci che potrebbe ripetere l’exploit anche nel 2013 insistendo coi
colleghi giurati per quel Philippe Garrel, classe ’48, amico di lunga data del
regista parmigiano e proveniente da quella corrente storica della
cinematografia francese a cui entrambi si sono devotamente rapportati.
A Venezia
è arrivata (ancora sensualissima) Katharina Miroslawa, per presentare, alle
Giornate degli Autori, “Venezia salva” di Serena Nono, pellicola in costume
recitata da una compagnia di attori senzatetto, e ispirata alla tragedia della
filosofa francese Simone Weil, che racconta il tentato sacco di Venezia del
1618 da parte di un gruppo di congiurati spagnoli e in cui la Miroslawa ha una
parte, piccola, come cortigiana.
Ha
chiesto ai giornalisti che le si assiepavano attorno: “Per favore, scriva
un pezzo glam!”, raccomandazione non così scontata (scrive Vanity Fair) .,
visto che di glamorous la sua tragica storia ha poco: l’ex
ballerina polacca oggi 51enne, al centro di un noto caso di cronaca nera, è
tornata in libertà a giugno, dopo otto anni di latitanza e dodici di
detenzione, scontati alla Giudecca. Protagonista di quello che lei definisce un
“thriller psicologico”, Katharina, assassina per la legge, innocente per
proclamazione, per molti vittima di ingiustizia, nel 1993 è stata condannata
per concorso morale nell’omicidio di Carlo Mazza, un industriale di Parma di
cui era amante, e che il 9 febbraio 1986 venne trovato morto nella sua auto. A
compiere materialmente il delitto, per sua stessa ammissione, l’ex marito della
Miroslawa, Witold Kielbasinski, accecato dalla gelosia.
Oggi
tutti i condannati sono di nuovo liberi (oltre ai coniugi, anche il fratello di
lei) e se si torna a parlare di questo caso è perché la Miroslawa, trasferitasi
intanto a Vienna, chiede la riapertura del processo, assistita dall’avvocato
Paolo Righi (lo stesso di Nicole Minetti al processo Ruby, ma anche perché il 20
settembre uscirà per Vannini Editrice il suo libro-verità, scritto con l’agente
dei vip (e suo) Rody Mirri e intitolato “Peccato…” (con i tre
punti di sospensione). “Mi piacerebbe che si facesse un film tratto dal mio
libro: la sceneggiatura è perfetta per Roman Polanski, solo lui riuscirebbe a
ricostruire la mia storia, che è un thriller psicologico incredibile. Dovrei
tradurre il libro in polacco e mandarglielo”, ha detto la Miroslawa ai
giornalisti.
Tornando
ai film presentati ieri, si possono dire molte cose pro e conto “Återträff” (La
riunione) opera prima dell’attrice e regista svedese Anna Odell, ma non si
può negare che sia un’opera che tenta strade non consuete. Non si può dire che
il progetto sia riuscito in tutte le sue parti o che non vi sia una
sovrabbondanza di cose dette in rapporto a quelle mostrate. Ciononostante
l’operazione appare davvero originale e le intenzioni più che nobili. Per
rendersene conto basta mettere da parte l’idea – ampiamente solleticata nella
prima parte – di trovarsi davanti uno di quei film, soprattutto nordici, in cui
una qualsiasi occasione conviviale diventa motivo per lo svelamento degli
scheletri chiusi negli armadi.
Anche
Giovanni Allevi al Lido di Venezia in occasione della presentazione in
anteprima del cortometraggio “Symphony of Life” del cartoonist Marco Pavone, un
corto d'animazione in computergrafica accompagnato dalle musiche del giovane
compositore.
Fra i
corti segnaliamo “Insieme”, progetto nato da OncoMovies (in collaborazione con
Donna Salute onlus, Società italiana di Psico-oncologia, l’azienda farmaceutica
MSD, Pro Format Comunicazione), di appena 13 minuti, ispirato a una storia
vera, girato da Anna Maria Liguori e che parla di Angela che va a trovare la
sorella Laura poco prima che quest’ultima cominci la chemioterapia. Mentre però
corre verso la sorella, Angela incontra Luca, un ragazzo che aveva conosciuto
Laura pochi giorni prima e si era innamorato di lei. La presenza di questo
nuovo amore permette alle due sorelle di affrontare con serenità la dura prova.
Un po’ come “Love Story” ma con molta più serenità nel messaggio che invia.
Il
Festival chiude (in attesa del verdetto della giuria e della cerimonia di
consegna dei Leoni e degli altri premi, sabato 7), con, per Orizzonti, “La
prima neve” di Andrea Segre, storia di integrazione e conflitti familiari
ambientata fra le montagne del Trentino; fuori concorso “Unforgiven” di
Lee Sang-il, remake made in Japan de “Gli Spietati” di Clint Eastwood; la
consegna a Enzo D'Alò del Premio Bianchi assegnato dal Sindacato Nazionale
Giornalisti Cinematografici italiani; ma, soprattutto, la cerimonia di consegna
a Ettore Scola del premio Jaeger-LeCoultre - Glory to the Filmmaker Award, con
a seguire, in Sala Grande e alla presenza di Giorgio Napolitano, “Che strano
chiamarsi Federico!”, dove Scola racconta Fellini in occasione del ventennale
della morte del regista.
Ciò che
più mi resterà nel cuore, in questa 70esima edizione, sono comunque i 70
cortometraggi realizzati da altrettanti registi per il progetto speciale
Venezia70 – Future Reloaded: un’idea per celebrare, in totale libertà creativa,
e attraverso film brevi dalla durata compresa fra 60 e 90 secondi, il traguardo
delle 70 edizioni raggiunto dalla Mostra. Un progetto che finisce anche per
riflettere sul futuro stesso del cinema, filtrato dalla sensibilità personale
di ciascun regista: si pensi ad Abbas Kiarostami, che mette un bimbo dietro la
macchina da presa per dare l’azione e lo stop al “remake” de L’innaffiatore innaffiato dei fratelli Lumière, o a Shirin
Neshat, che traendo ispirazione da Ottobre e La
corazzata Potëmkin di
Ejzenštejn, “reinventa” la storia, e il cinema, facendo indietreggiare i
cosacchi dello zar al cospetto della madre con in braccio il figlio ferito a
morte, rileggendo la celebre sequenza della scalinata di Odessa. E ancora a Non arrenderti di Amir Naderi, con carcasse e fossili
di pesci sulla riva, poi una mano che accarezza pizze di pellicola accatastate.
E la stessa mano che dalle acque di un fiume trae in salvo un piccolo
pesciolino. Nell’insieme non mancano anche notevoli spunti riguardanti le nuove
frontiere della fruizione: Atom Egoyan, con Butterfly,
è costretto a fare spazio sulla “memoria” del proprio smartphone e, per farlo,
ci mostra per l’ultima volta un video realizzato ad Amsterdam in cui riprende
le fotografie di Anton Corbijn esposte in un museo. L’immagine si chiude
proprio sulla celebre “Tricky”, opera del fotografo e regista olandese, ed
Egoyan ci spiega come – eliminandola – la farfalla incastonata nel petto del ragazzo
tornerà ad essere libera. Il macedone Milcho Manchevski, invece, prende spunto
da un video che fece il giro della rete qualche tempo fa (quello della donna
cinese investita da un camion e rimasta a terra tra l’indifferenza dei numerosi
passanti), per soffermarsi sulle derive che potrebbero condurci ad ignorare
quello che accade sotto i nostri occhi pur indignandoci vedendo frammenti di
immagini provenienti da chissà dove. Emblematico, tra gli altri, il corto di
Edgar Reitz, che alla Mostra porta fuori concorso Die andere Heimat – Chronik einer
Sehnsucht: la sala di un cinema si svuota, un uomo rimane solo, in lacrime,
al termine della proiezione. Esce, e per strada ritrova i “compagni di
visione”, già intenti a maneggiare telefoni e tablet, pronti ad altre
“fruizioni”. Fuori è un esplosione di immagini, colorate, sovrapposte, veloci:
l’uomo entra in un locale, si avvicina al bancone, il barista sfoglia il
proprio tablet. E l’uomo, prendendo il proprio smartphone, decide di appuntare
sul blocco note il ricordo della serata: “Sono stato al cinema. Ho pianto”
(firmato Franz Kafka).
Non manca, naturalmente, il contributo dei registi
italiani: il presidente di giuria Bernardo Bertolucci ha realizzato Scarpette rosse, citando
l’immortale capolavoro di Powell e Pressburger, inquadrando però i suoi piedi e
le ruote della carrozzella durante una difficile passeggiata sui sampietrini
romani, Guido Lombardi con Senza
fine rende omaggio alla
celebre battuta di Via col
vento (“Francamente, mia
cara, me ne infischio”), Ermanno Olmi realizza La moviola, Salvatore Mereu Transumanza, Davide Ferrario Lighthouse, Franco Maresco
rispolvera personaggi e atmosfere da “Cinico Tv” per i caratteristici auguri
alla Mostra, Placido si interroga sul futuro del cinema italiano, poi Giuseppe
Piccioni, Pietro Marcello, Antonio Capuano, Franco Piavoli. Un flusso di
immagini, talvolta parole, testi, fotografie: il mondo del cinema (impossibile
citare tutti i registi presenti, immancabili gli habitué della Mostra come Kim
Ki-duk e Shinya Tsukamoto, Brillante Mendoza o James Franco, più veterani come
Krzysztof Zanussi, Leone d’oro nell’84 con L’anno
del sole quieto, Monte Hellman, Amos Gitai – quest’anno in concorso con Ana Arabia -, Paul Schrader – presidente di
giuria in Orizzonti e fuori concorso con il film The Canyons -, Haile Gerima, Catherine Breillat,
Júlio Bressane e altri ancora. (Carlo Di Stanislao* -Inform)
*
Presidente dell’Istituto Cinematografico “La Lanterna Magica”dell’Aquila
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