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martedì 31 dicembre 2013

La Canzone de lo capodanno

TRADIZIONI
La Canzone de lo capodanno

Nei giorni scorsi, all’avvicinarsi del Natale, a proposito delle tradizioni napoletane ho parlato della Cantata dei pastori. Ne ho parlato in uno dei tre brevi scritti (Trilogia natalizia, v. Inform del 24 e del 27 dicembre, ndr) che poi ho allegato agli auguri che ancora invio agli amici che gradiscono riceverli.
La parola pastori per quello che essa significa in questo contesto culturale, grazie allo scivolamento di significato subito, già da sola va a consolidare una lunga tradizione, e pertanto può diventarne l’emblema. Molto probabilmente tra una o due generazioni la parola pastore finirà col significare – almeno a Napoli – solo ed esclusivamente “statuina del presepe” per indicare i diversi personaggi  dei diorami natalizi, cioè i plastici che rappresentano in maniera originale e immaginifici la scena della natività di Gesù: i presepi, appunto. In maniera identica a quella per cui “presepe”  già oggi non significa più stalla, se non presso qualche poeta che si compiace di usare parole arcaiche.
Per effetto della antonomasia il nome “pastori” nel napoletano si è esteso dai pastori (quelli che pascolano il gregge), di cui si parla nel vangelo di Luca (Lc 2, 8-20) dove l’evangelista racconta la nascita di Gesù, a tutti gli altri pezzi che formano l’insieme dei personaggi in miniatura che in genere si vedono sulla scena presepiale. Sicché sono “pastori” (nel senso di “statuine”) il bue e l’asinello, Maria e Giuseppe, i Magi, l’angelo, ecc.: uomini e cose, angeli e santi, ogni pezzo scolpito che nel tempo si è aggiunto all’impianto scenografico.
La Cantata dei pastori, prima di essere un genere letterario, o, se vogliamo, un contenitore (per usare il linguaggio delle moderne tecniche televisive), essa è innanzi tutto un testo letterario, unico  e originale, destinato alla rappresentazione teatrale. Mentre il fatto di venir rappresentato esclusivamente nel periodo natalizio ne ha fatto una devozione, una liturgica sebbene popolare, tanto più che porta in scena il mistero della nascita del Salvatore. L’opera è una narrazione combinata di alcuni filoni: il sogno di un pastorello (Arcadia); le trame infernali per ostacolare la nascita del Messia e lo scontro conseguente tra Uriel e Gabriel, capo dei diavoli il promo,  condottiero degli angeli il secondo; la vita semplice, modesta, ordinaria di un paese che spesso è proprio quello stesso in cui si sta rappresentando la Cantata; il viaggio di Giuseppe e Maria verso Betlemme per ottemperare all’ordine del censimento.
I filoni narrativi intrecciandosi – e talvolta fondendosi – l’uno nell’altro nel corso della rappresentazione teatrale, confluiscono tutti al luogo del presepe e al momento della nascita di Gesù, fornendo insieme da una parte concreta storicità all’Avvenimento, e nello stesso tempo fondamento teologico al Mistero. Proprio come anticipato nel titolo stesso dell’opera: “Il vero lume tra le tenebre, ossia la nascita del Verbo incarnato”.
Essa fu pubblicata nel 1698 dal religioso Andrea Perrucci (1651 – 1704). Poi il testo, per le numerosissime repliche, per l’eterogeneità delle compagnie e filodrammatiche che le hanno eseguite, per il mutare stesso di mentalità e sensibilità nel corso dei secoli, ha subito contaminazioni, integrazioni ed adattamenti, con l’inclusione di canti e scene paesane (tra l’altro anche l’originale si rifà alla commedia dell’arte, se lascia recitare a soggetto i due protagonisti, Razzullo e Sarchiapone nelle scene in cui non hanno altri interlocutori) si è trasformato assumendo forma e linguaggi delle realtà sociologiche degli attori e delle epoche. Così ogni città si crea la sua tradizione della Cantata dei pastori. Questo ha comportato che nella scena finale, quella della composizione del quadro del presepe, sia stato inserito il canto natalizio “Tu scendi dalle stelle” composto da S. Alfonso M. de’ Liguori; oppure l’altro, in napoletano, sempre dello stesso autore: “Quanno nascette Ninno a Betlemme … “.
In qualche zona poi vi si aggiunge – da qualche parte durante la rappresentazione – anche la Canzone de lo capodanno.
È, la Canzone de lo capodanno, un lungo canto augurale: “la ‘nferta”(l’offerta), che i musici portavano alle famiglie, che però in questo caso, data la sua lunghezza appare quasi come una sceneggiata: nei piccoli centri della penisola sorrentina è l’intera comunità locale a parteciparvi. Nei centri più grandi generalmente la si canta l’ultimo dell’anno nelle case o nei cortili talvolta con la partecipazione delle famiglie del vicinato.
In effetti la ‘nferta  è il genere  poetico dei cantastorie che veniva esibito al momento di chiedere il piccolo contributo monetario.
Questa ‘nferta natalizia è un componimento molto raffinato, ben strutturato, che, per scelta linguistica e contenuti del tema, presuppone un autore acculturato, vigile, intelligente, del cui nome  si è perduta la memoria. Purtroppo passa per anonimo, perché anonima era la copia a stampa che veniva fatta circolare per Natale; e come tale è stata trovata tra le cose semplici, ma meritevoli di riguardo, trovate in mezzo ai testi ben più importanti custoditi nella biblioteca del filosofo Benedetto Croce.
Con questo canto, nel chiedere l’offerta, gli “amici buontemponi” portano gli auguri per il nuovo anno a un destinatario occasionale. Il canto si apre con l’annuncio che si è giunti al termine dell’anno e bisogna perciò trascorrere la notte in allegria. Continua - per una settantina di strofe - presentando diverse situazioni: il mito, la storia, la realtà quotidiana, il sentimento religioso, l’espressione degli auguri a tutte le professioni, l’intenzione della dedica, la richiesta di una offerta, la speranza di vedersi ancora l’anno prossimo in condizioni di maggior benessere morale e materiale. A leggerla oggi, la Canzone dello capodanno sembra composta da un fine osservatore dei tempi moderni, acuto e brillante al tempo stesso, brioso e caustico come dev’essere un autore seriamente (e coscienziosamente) satirico. (Luigi Casale* /Inform) luigicasale@pt.lu

* Il prof. Casale, di origini campane, per molti anni ha insegnato nella scuola italiana del Lussemburgo e poi all'Università di Clermont Ferrand, in Francia. E' uno studioso di tradizioni regionali, oltre che filologo e pubblicista. In pensione, vive dividendosi tra Bressanone e il Lussemburgo. 

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