TRADIZIONI
La Canzone de lo
capodanno
Nei giorni scorsi, all’avvicinarsi del
Natale, a proposito delle tradizioni napoletane ho parlato della Cantata dei
pastori. Ne ho parlato in uno dei tre brevi scritti (Trilogia natalizia, v.
Inform del 24 e del 27 dicembre, ndr) che poi ho allegato agli
auguri che ancora invio agli amici che gradiscono riceverli.
La parola pastori per
quello che essa significa in questo contesto culturale, grazie allo
scivolamento di significato subito, già da sola va a consolidare una lunga
tradizione, e pertanto può diventarne l’emblema. Molto probabilmente tra una o
due generazioni la parola pastore finirà col significare –
almeno a Napoli – solo ed esclusivamente “statuina del presepe” per indicare i
diversi personaggi dei diorami natalizi, cioè i plastici che
rappresentano in maniera originale e immaginifici la scena della natività di
Gesù: i presepi, appunto. In maniera identica a quella per cui “presepe”
già oggi non significa più stalla, se non presso qualche poeta che si compiace
di usare parole arcaiche.
Per effetto della antonomasia il nome
“pastori” nel napoletano si è esteso dai pastori (quelli che pascolano il
gregge), di cui si parla nel vangelo di Luca (Lc 2, 8-20) dove l’evangelista
racconta la nascita di Gesù, a tutti gli altri pezzi che formano l’insieme dei
personaggi in miniatura che in genere si vedono sulla scena presepiale. Sicché
sono “pastori” (nel senso di “statuine”) il bue e l’asinello, Maria e Giuseppe,
i Magi, l’angelo, ecc.: uomini e cose, angeli e santi, ogni pezzo scolpito che
nel tempo si è aggiunto all’impianto scenografico.
La Cantata dei pastori, prima di essere
un genere letterario, o, se vogliamo, un contenitore (per usare il linguaggio
delle moderne tecniche televisive), essa è innanzi tutto un testo letterario,
unico e originale, destinato alla rappresentazione teatrale. Mentre il
fatto di venir rappresentato esclusivamente nel periodo natalizio ne ha fatto
una devozione, una liturgica sebbene popolare, tanto più che porta in scena il
mistero della nascita del Salvatore. L’opera è una narrazione combinata di
alcuni filoni: il sogno di un pastorello (Arcadia); le trame infernali per
ostacolare la nascita del Messia e lo scontro conseguente tra Uriel e Gabriel,
capo dei diavoli il promo, condottiero degli angeli il secondo; la vita
semplice, modesta, ordinaria di un paese che spesso è proprio quello stesso in
cui si sta rappresentando la Cantata; il viaggio di Giuseppe e Maria verso
Betlemme per ottemperare all’ordine del censimento.
I filoni narrativi intrecciandosi – e
talvolta fondendosi – l’uno nell’altro nel corso della rappresentazione
teatrale, confluiscono tutti al luogo del presepe e al momento della nascita di
Gesù, fornendo insieme da una parte concreta storicità all’Avvenimento, e nello
stesso tempo fondamento teologico al Mistero. Proprio come anticipato nel
titolo stesso dell’opera: “Il vero lume tra le tenebre, ossia la nascita del
Verbo incarnato”.
Essa fu pubblicata nel 1698 dal
religioso Andrea Perrucci (1651 – 1704). Poi il testo, per le numerosissime
repliche, per l’eterogeneità delle compagnie e filodrammatiche che le hanno
eseguite, per il mutare stesso di mentalità e sensibilità nel corso dei secoli,
ha subito contaminazioni, integrazioni ed adattamenti, con l’inclusione di
canti e scene paesane (tra l’altro anche l’originale si rifà alla commedia
dell’arte, se lascia recitare a soggetto i due protagonisti, Razzullo e
Sarchiapone nelle scene in cui non hanno altri interlocutori) si è trasformato
assumendo forma e linguaggi delle realtà sociologiche degli attori e delle
epoche. Così ogni città si crea la sua tradizione della Cantata dei pastori.
Questo ha comportato che nella scena finale, quella della composizione del
quadro del presepe, sia stato inserito il canto natalizio “Tu scendi dalle
stelle” composto da S. Alfonso M. de’ Liguori; oppure l’altro, in napoletano,
sempre dello stesso autore: “Quanno nascette Ninno a Betlemme … “.
In qualche zona poi vi si aggiunge – da
qualche parte durante la rappresentazione – anche la Canzone de lo
capodanno.
È, la Canzone de lo capodanno, un lungo
canto augurale: “la ‘nferta”(l’offerta), che i musici
portavano alle famiglie, che però in questo caso, data la sua lunghezza appare
quasi come una sceneggiata: nei piccoli centri della penisola sorrentina è
l’intera comunità locale a parteciparvi. Nei centri più grandi generalmente la
si canta l’ultimo dell’anno nelle case o nei cortili talvolta con la
partecipazione delle famiglie del vicinato.
In effetti la ‘nferta
è il genere poetico dei cantastorie che veniva esibito al momento di
chiedere il piccolo contributo monetario.
Questa ‘nferta natalizia è
un componimento molto raffinato, ben strutturato, che, per scelta linguistica e
contenuti del tema, presuppone un autore acculturato, vigile, intelligente, del
cui nome si è perduta la memoria. Purtroppo passa per anonimo,
perché anonima era la copia a stampa che veniva fatta circolare per Natale; e
come tale è stata trovata tra le cose semplici, ma meritevoli di riguardo,
trovate in mezzo ai testi ben più importanti custoditi nella biblioteca del
filosofo Benedetto Croce.
Con questo canto, nel chiedere
l’offerta, gli “amici buontemponi” portano gli auguri per il nuovo anno a un
destinatario occasionale. Il canto si apre con l’annuncio che si è giunti al
termine dell’anno e bisogna perciò trascorrere la notte in allegria. Continua -
per una settantina di strofe - presentando diverse situazioni: il mito, la
storia, la realtà quotidiana, il sentimento religioso, l’espressione degli
auguri a tutte le professioni, l’intenzione della dedica, la richiesta di una
offerta, la speranza di vedersi ancora l’anno prossimo in condizioni di maggior
benessere morale e materiale. A leggerla oggi, la Canzone dello capodanno
sembra composta da un fine osservatore dei tempi moderni, acuto e brillante al
tempo stesso, brioso e caustico come dev’essere un autore seriamente (e
coscienziosamente) satirico. (Luigi Casale* /Inform) luigicasale@pt.lu
* Il prof. Casale, di origini campane, per molti anni ha insegnato nella
scuola italiana del Lussemburgo e poi all'Università di Clermont Ferrand, in
Francia. E' uno studioso di tradizioni regionali, oltre che filologo e
pubblicista. In pensione, vive dividendosi tra Bressanone e il
Lussemburgo.
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