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martedì 30 luglio 2013

Nati in Italia, apprezzati in America: la nuova emigrazione dei giovani talenti italiani

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Da “We the Italians”
Nati in Italia, apprezzati in America: la nuova emigrazione dei giovani talenti italiani

Umberto Mucci intervista Letizia Sirtori, giovane talento italiano di successo a Washington Dc

Letizia parla in prima persona plurale, quando si riferisce agli italiani. Potrà sembrare normale, essendo lei pienamente cittadina italiana, nata e cresciuta in Italia. Ed è normale, per lei. Ma non tutti i ragazzi mandati via dalla mala Italia che ogni giorno viviamo, hanno piacere a dimostrare che se c'è da fare sacrifici, sono parte del Paese, anche se vivono all'estero. Constatiamo raramente nei ragazzi che incontriamo qui nello stivale lo stesso attaccamento per l'Italia che abbiamo percepito chiacchierando con Letizia.

Letizia Sirtori ha trentadue anni, una laurea, un doppio master e tanta passione per il turismo. Ha trovato a Washington chi ne ha riconosciuto il talento e la bravura, perché qui da noi le mancava un requisito fondamentale: la raccomandazione di qualche potente parassita. Non lo racconta con rabbia: un po' di rabbia ce l'abbiamo noi, che l'abbiamo presa ad esempio dei tantissimi bravi e brillanti ragazzi italiani cacciati via da un Paese che del merito spesso non sa che farsene, e dopo averli formati li manda via senza dare loro le opportunità che meriterebbero. L'abbiamo eletta a rappresentante di una categoria, quella dei giovani italiani di successo emigrati negli ultimi anni negli USA, ma lei non ne ha colpe: e sebbene noi si sia convinti che le sue risposte siano quelle della stragrande maggioranza di chi come lei è giovane e espatriato, ovviamente non è la portavoce di altri se non di sé stessa. Il che, credeteci, non è affatto poco. Letizia è responsabile dello sviluppo del turismo internazionale per la città di Washington DC, la capitale del Paese più importante, ricco e potente del mondo. A trentadue anni. Solamente per merito suo.

Letizia, raccontaci un po' di te: che tipo di studi hai fatto, come sei finita a Washington DC, e cosa fai ora?

Sono originaria di Carate Brianza, in provincia di Milano. Ho iniziato l'Università allo IULM in Scienze del Turismo, facendo un anno di Erasmus a Vienna; dopo di esso ho ottenuto una borsa di studio Leonardo con la quale sono tornata a Vienna per uno stage che poi si è tramutato nel mio primo lavoro nell'ambito della cultura legata al turismo a Vienna: lì ho scritto la tesi e sono rientrata in Italia per discuterla e laurearmi. Gli Stati Uniti erano il mio sogno da quando ero piccola, così dopo un paio di anni di lavoro per un tour operator sono venuta a fare un doppio master, MBA e Hospitality Management a Miami per migliorare la mia competenza. Mentre studiavo ho lavorato per Costa crociere, e poi una volta laureata mi è stato offerto un lavoro a Washington DC. Effettivamente, era questa la mia prima destinazione di studio preferita: ma a Miami mi hanno concesso una borsa di studio, e quindi sono andata lì. Arrivata a Washington lavoravo per la US Travel Association, che è il più importante ente per la promozione del turismo negli USA: finito il mio contratto con loro mi sono trovata a dover cercare un altro impiego per poter rimanere con un visto lavorativo, che non è mai facile e richiede molta caparbietà e un po' di fortuna. Sono stata presa dall'ente del turismo di Destination DC, ma in un diverso dipartimento rispetto a quello in cui sono ora. Dopo 6 mesi in cui mi occupavo di coordinare la parte convention e congressi, che era in effetti un passo indietro rispetto a quanto facevo in Italia, sono stata promossa alle responsabilità di ora.

Interessante: ci sono già dalla tua prima risposta diversi elementi che possono insegnare ai nostri ragazzi che vogliono trasferirsi quanto sia difficile la strada che porta al successo, negli USA, e come non ci si debba scoraggiare né si debba pensare di avere subito il lavoro che si desidera. Com'è Washington? Chi scrive ha un debole per la città e per le zone vicine della Virginia, del Maryland ... ci sono molti italiani?

Che io sappia, ma non è un numero ufficiale, nell'area della Greater Washington (DC, Virginia del Nord e Maryland del Sud) ci sono circa tremila italiani. La comunità più grande è quella dei ricercatori, medici, biologi ed ingegneri dell'NIH (National Institute of Health): alcuni rimangono per un paio d'anni per i progetti dei loro dottorati, altri anche più a lungo. Poi c'è una forte comunità italiana alla World Bank e all'IMF (International Monetary Fund); e infine ci sono quelli che come me che sono venuti a studiare negli USA e poi sono arrivati qui: Washington DC è una delle aree con il più alto reddito procapite di tutti gli Stati Uniti, e ci sono molte opportunità per chi le sa cogliere. Gli italiani che sono qui hanno tutti un alto livello di formazione, e ricoprono quasi tutti ruoli manageriali.

Io sono qui dal 2007 e Washington è cambiata moltissimo: si sta espandendo, stanno costruendo 80.000 nuovi appartamenti e stanno attirando più investimenti esteri. Ci sono tantissimi giovani dai 25 ai 40 anni, perché ovviamente le carriere legati agli affari internazionali o alla politica iniziano e passano di qua; ma è fortissimo anche tutto il lato culturale, dalle gallerie d'arte agli studio per gli artisti emergenti che qui trovano costi minori rispetto a New York. E poi è una città in cui non c'è una sola strada senza almeno un albero, un cespuglio, un aiuola, un segno verde nel panorama urbano: questo stupisce tutti coloro che arrivano qui, insieme al fatto che sia molto facile muoversi a piedi, e la sua estrema pulizia. Infine, con un paio di ore di macchina da qui puoi essere al mare, o in montagna, puoi visitare le piccole città della zona, e insomma hai molte meravigliose escursioni in mezzo alla natura americana.

Ti diamo la grande responsabilità di rappresentare in qualche modo i giovani italiani che si sono stabiliti negli USA: moltissimi ragazzi armati di talento e buona volontà, che lasciano l'Italia in cerca di successo e opportunità, e li trovano negli USA, grazie al loro lavoro duro e alla loro caparbietà. Perché l'America li accoglie bene, cosa trovano lì, e cosa invece i nostri giovani possono aggiungere a questo grande Paese?

Per come la vedo io, per la mia generazione l'America resta il sogno di tantissimi, che culturalmente ammiriamo sin da bambini. Di tanti amici italiani che ho qui, il 50% ha sempre voluto venire qui – e io sono una di quelli, e l'altro 50% ci è capitato perché ce l'ha portato il destino che loro hanno volentieri accettato. Noi italiani qui siamo ammirati, siamo stimati, nonostante quello che succede nel nostro Paese: riconoscono che possediamo un forte livello di conoscenza, di preparazione e di base accademica – come minimo la laurea - che possiamo mettere a disposizione. Siamo grandi lavoratori, abbiamo capacità di adattarci, possediamo quell'approccio professionale e industriale molto apprezzato. Siamo un po' una nuova ondata di immigrati, che non arriva più sul barcone per necessità e senza possedere altro che la forza delle loro braccia: noi abbiamo scelto di venire qui, portiamo competenze e capacità della nuova Italia e sappiamo che se vogliamo possiamo rientrare, poi c'è chi vuole o vorrà farlo e chi invece no. Comunque, vogliamo rimanere legati al nostro paese, mantenerne la cultura e la nostra lingua: chi ha i figli qui parla con loro in italiano, che studiano anche a scuola, a differenza di quello che accadde nella prima parte del secolo scorso, quando l'italiano venne quasi eliminato nel corso del processo di "americanizzazione" delle nuove generazioni nate qui negli Stati Uniti. Insomma, il processo di decisione che ci ha spinto a venire qui è stato decisamente meno drammatico di quello che ha contraddistinto l'ondata di emigrazione italiana di inizio secolo scorso: e non è nemmeno detto che la scelta di stare qui non possa essere seguita dal proseguire la nostra avventura in altri luoghi che non siano Europa o America, cosa che gli immigrati di un tempo non potevano certo immaginare. Ma in generale, la verità è che ci piace stare qui, ci troviamo bene.

Che sentimenti provi verso l'Italia che ti ha più o meno consapevolmente mandato via? Nostalgia? Rabbia? Delusione? Preoccupazione? Speranza? Amore? Che effetto ti fa sentire la CNN - vista da decine di milioni di telespettatori in giro per il mondo - dire che meritiamo il downgrade di Standard &Poor's a livello di quasi spazzatura, perché qui in Italia "scioperano tutti"?

Con tutta probabilità, se dovessi chiedere ai tremila che ci sono qui, la maggior parte direbbe "mi piacerebbe tornare, comunque, un giorno, magari per passarci il periodo della mia pensione", oltre ad andarci in vacanza quando si può. Per quanto mi riguarda, c'è certamente nostalgia e c'è un po' di amarezza: sono appena tornata per qualche giorno e ho visto che si parla tanto ma mi sembra che si stiano compiendo nuovamente gli stessi errori del passato, ad esempio per quanto riguarda le opportunità da dare ai giovani, che sembra non arrivino mai. Mi sembra, e per questo c'è amarezza, un Paese che avrebbe bisogno che le cose venissero un po' sconvolte, mentre si rimane in stallo. E certo, mi irrita quando qui fanno commenti sulla nostra politica – perché ovviamente noi italiani non manchiamo mai di mettere tutti i nostri panni sporchi in piazza: e penso che dia più fastidio ad un italiano che è fuori, rispetto a chi è rimasto in Italia. Perché a volte la percezione è a che, dal punto di vista del mancato cambiamento della classe dirigente, noi italiani qui all'estero si sia un po' marcati in un certo modo, per niente bello. Ma è ovvio già da quello che dico, poi l'amore per l'Italia c'è sempre. I miei colleghi scherzano sul fatto che quando mi si tocca l'Italia mi esce il fuoco, ed è così: perché è il mio Paese, la mia terra, e chi non la conosce non dovrebbe parlarne male. Invece, devo dire che tra le persone che conosco, nessuno prova proprio rabbia o rancore verso l'Italia: c'è chi dice che assolutamente non ci tornerà più a lavorare, perché non ha fiducia che ci potrà più essere un'opportunità. Detto ciò, un esempio sono le ultime elezioni politiche, e ritorna il concetto di stallo. Forse ci sentiamo impotenti rispetto a quello che vorremo cambiasse in Italia. Io ho votato e ho cercato di convincere amici a farlo, perché non volevano: l'ho fatto per la mia famiglia che è in Italia, per i miei amici. Ma anche per me, che mi sento italiana e mi importa di chi sta lì e del mio Paese.

Il nostro Paese è stracolmo di cose magnifiche e interessanti da visitare, vivere, imparare ... luoghi di grande cultura e diversità, che ci rendono unici al mondo. Nel 1970 eravamo il secondo Paese più visitato, oggi siamo il quinto, superati da Paesi molto meno belli del nostro. Cosa dovremmo imparare dagli americani – che in questa classifica erano e sono rimasti al primo posto - nella gestione di questo settore? Se ti chiamassero a capo del Ministero del Turismo, quali sono le prime tre cose che faresti?

Gli americani sono i maghi del marketing e dei loghi: fa parte della loro cultura, decisamente molto più che della nostra, storicamente. Il motivo principale per cui io ho voluto venire qui è proprio questo, imparare da loro questa filosofia e questo modo di fare business. Lo si vede nella vita di tutti i giorni, in cui riescono a venderti la maglietta, il gadget, il ricordo anche di cose semplici e molto meno emozionanti delle bellezze che abbiamo noi. Anzi, probabilmente, tanto loro sono bravi a venderti anche cose non belle, tanto noi siamo incapaci di valorizzare le meravigliose cose che abbiamo. Non c'è coordinamento e in una precedente trasmissione radiofonica in cui eravamo ospiti insieme, lo stesso Presidente di Assoturismo ha ammesso che anche nel turismo c'è di gran lunga troppa politica e poca impresa. Questo rattrista fortemente, perché così facendo le possibilità per i giovani non "figli di" in questo settore non esisteranno, se non cambiano le cose.

Se fossi Ministro del Turismo, le tre prime cose che farei sono queste. In primis, riformerei l'ENIT, che oggi come oggi appare una macchina politica inutile. Spendiamo soldi per tenere questo uffici aperti: io in sette anni che sono negli Stati Uniti non ho visto una sola campagna di promozione dell'Italia. Mi risulta che lì ci sia gente che di turismo sa molto poco, messa lì per convenienze politiche e burocratiche e non per merito. Tra le tante cose negative, mi ha colpito che sul loro sito non ci sia nemmeno un link a carriere e possibilità di lavoro nell'ambito del turismo, come avviene per ogni altra struttura omologa. La seconda cosa che farei è incentivare gli enti locali all'adozione della tassa alberghiera (in America, in Australia e in Brasile è una percentuale sul prezzo netto della camera d'albergo o del bed and breakfast): so che ci sono commenti negativi su questo, diretti vero le città che già la hanno, ma per me è fondamentale per agevolare gli enti locali a supportare attività di valorizzazione e marketing dei territori. I proventi di questa tassa dovrebbero naturalmente essere utilizzati per questo, e non per altro. La terza cosa che farei è, magari con cautela ma anche con decisione, l'avvicinamento a modelli che funzionano altrove, come qui in America ma anche in Australia, che prevedono il coinvolgimento dei privati in questo settore, al fianco del sistema pubblico. I soggetti privati che operano in questo campo (gli hotel, i ristoranti, le compagnie di trasporto, i centri congressi e gli altri) dovrebbero essere parte del sistema, da un lato supportandolo economicamente, dall'altro ottenendo poteri decisionali, uscendo dalle logiche della burocrazia e della politica che non producono risultati positivi. Anche in Francia, per rimanere in Europa, funziona così. Questo tra l'altro significa che a mio avviso ci deve essere un Ministero del Turismo a livello nazionale che eroga fondi e coordina l'azione del Paese in generale; ma poi sono gli enti locali che conoscono il territorio e devono promuoversi. Alcuni già lo fanno bene: il Veneto, la Sardegna, la Calabria lo fanno, anche se su piccola scala.

Se mi permetti, ne dico una quarta: limitare, molto di più di come sia oggi, gli ingressi gratuiti. Noi abbiamo un patrimonio culturale eccezionale: ma spesso l'entrata a questi tesori della storia e dell'arte è gratuita, non si chiede nemmeno due o tre euro, che è una cifra che ogni turista pagherebbe per vedere i nostri capolavori. Ci teniamo i Bronzi di Riace chiusi, non visibili al pubblico e senza poterli ristrutturare per mancanza di fondi, e poi lasciamo che si entri gratis quasi ovunque. Si creerebbero anche molti posti di lavoro, soprattutto per i giovani: che già oggi questa attività la svolgono spesso senza essere pagati, per imparare un mestiere migliorare la propria competenza, ma poi non trovano sbocchi perché la trasformazione in contratti remunerati non arriva mai. E' vero che c'è gente che non vuole fare niente, come ovunque: ma ci sono anche tanti ragazzi che si danno da fare, si rimboccano le maniche, lavorano mentre studiano e continuano a fare sacrifici per imparare, pagati niente o molto molto poco e magari in ritardo. Non meritano di essere definiti bamboccioni: poi se vanno all'estero vengono stimati e apprezzati, e l'Italia perde sue risorse che potrebbero aiutarla a risollevarsi.

A proposito: dal punto di vista turistico (ovviamente non parliamo di politica), che ne pensi del fatto che il Sindaco di Firenze ha "affittato" Ponte Vecchio per una serata in esclusiva alla Ferrari, per 120.000 euro?

Se è un'operazione fatta salvaguardando il bene culturale e con un congruo introito a beneficio delle casse dell'ente locale per promozione e valorizzazione del patrimonio culturale della città, non ci vedo niente di strano: è necessario però che questa finalità sia limpidamente dimostrata ai cittadini. Noi ad esempio qui a Washington non abbiamo lo Stato, perché il District of Columbia non è assimilabile ad uno Stato: quindi abbiamo meno fondi delle altre città americane nostre competitors nell'attrazione turistica, e di conseguenza abbiamo imparato ad essere creativi e a lavorare con gli sponsor. Qui però c'è la trasparenza più assoluta. I curricula ed i salari dei Presidenti di questi enti, che sono pubblici e privati insieme, sono di dominio pubblico. Ci sono obiettivi misurabili e misurati (quanti dormono nella tua città, quanti pasti vengono consumati, quanti biglietti vendono le tue attrazioni) che ci si dà e si deve rispettare: altrimenti si cambia. La trasparenza è l'arma vincente, e si porta dietro la meritocrazia.

Molti dei nostri intervistati hanno il cuore diviso in due, tra Italia e Stati Uniti. Capita anche a te? O forse è ancora presto?

Si, eccome se ce l'ho. Io cerco sempre di trovare opportunità per rimanere legata all'Italia, anche mediante questa intervista. L'Italia è la mia terra. Però questo Paese, l'America, mi ha aperto le porte, e senza essere la figlia di nessuno importante o potente o ricco: mio papà è un elettricista, mia mamma è una casalinga, e mi hanno insegnato a studiare e lavorare per guadagnarmi il successo e le soddisfazioni. E qui è così per tantissimi: ci sono anche i "figli di", ma la stragrande maggioranza è qui per i suoi meriti, non per raccomandazioni o favori.

Per finire, ti chiediamo di darci una risposta meno emotiva e più asettica che puoi, visto il tema. Vista da lì, da una trentaduenne di successo costretta ad emigrare in America per vedere riconosciute le proprie competenze, l'Italia si risolleverà con facilità, o lo faremo con difficoltà? L'ipotesi che non ci si risollevi non la vogliamo prendere nemmeno in considerazione.

(Letizia ci pensa a lungo. Percepisco che le piacerebbe dire col suo bel sorriso che sarà tutto molto facile, e immediato. Ma invece – e la ringrazio - mi risponde seriamente, e onestamente). Sarà un percorso duro, secondo me. Ci sono delle cose di base che dobbiamo cambiare: da qui a me sembra che si stia tirando troppo la corda, che si stia giocando a qualcosa di pericoloso che però la gente ha ormai capito. Siamo italiani, e quindi ci risolleviamo, sì: ma sarà difficile e non senza sacrifici, e dovranno cambiare alcune cose importanti. (Umberto Mucci - We the Italians /Inform)

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