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Articolo di Francesco Lenoci
Maria di Venosa:
visioni oltre il confine dal Festival della Valle d’Itria
MARTINA FRANCA - Quando mi dicono “Tu
fai di tutto, di più per il Festival della Valle d’Itria perché sei nato a
Martina Franca, la Città del Festival” io non posso che rispondere: “Certo, non
vedo come potrebbe essere altrimenti”. Volendo però articolare meglio la
risposta, devo confessare che ci sono altre motivazioni che spingono il
sottoscritto (inter alia di questi tempi relatore in conferenze dal
titolo “Prepararsi al Default”) ad amare incondizionatamente il
Festival della Valle d’Itria.
Le ha esposte brillantemente Alberto
Triola, direttore artistico del Festival. “Tempi di crisi e di paure
diffuse, di necessaria prudenza e di rinunce forzose, ma per un Festival,
che sente l’alto richiamo del servizio pubblico alla
Cultura, arretrare e chiudersi in difesa è una soluzione
semplicemente non percorribile. Il Festival della Valle d’Itria accetta la
sfida, nella convinzione che l’unica risposta possibile, per una
società smarrita, sia stringersi intorno ai propri valori. E quindi
rilancia, scommettendo sulla curiosità e qualità del suo pubblico,
trovando coraggio nelle proprie radici e cercando di
trasformarsi con sempre maggior convinzione in un laboratorio
pubblico di idee, creatività, emozioni, dibattito”.
Al riguardo, l’immagine del manifesto
del 39° Festival della Valle d’Itria, realizzato dal grande Rafal Olbinski, è
quanto mai esplicita: i lineamenti di un viso femminile e lunare sono
illuminati da due occhi ben aperti, serenamente assetati di vastità e
lontananze. L’elemento acquatico conferisce una languida sensibilità. I due
cigni, speculari, riportano a una simbologia di derivazione classica: purezza,
capacità di preveggenza, piena realizzazione di sé. Gli occhi che ci guardano
dal manifesto sembrano suggerirci delle direzioni, invitarci a
delle scelte, a delle visioni. Il tema del Festival di quest’anno è,
appunto, quello delle “visioni”, intese come capacità di vedere oltre la realtà
materiale e storica, ma anche quale tensione etica e spirituale orientata alla
piena realizzazione di sé e dei propri ideali. Visioni delle terre di Puglia, i
cui paesaggi abbacinanti e mutevoli ti catturano e non ti lasciano più, in un
continuo rimando a orizzonti che riconducono ad altri confini e ad ulteriori
orizzonti, di mare, civiltà e radici millenarie.
Visioni come quelle che il
vecchio, delirante Carlo Gesualdo avverte negli ultimi giorni di esistenza
terrena, visitato dai fantasmi delle proprie vittime, nella Maria di
Venosa di Francesco D’Avalos, lavoro provocatorio e visionario a sua volta,
che vive a Martina Franca un significativo debutto italiano a vent’anni dalla
prima esecuzione londinese, accettando la sfida di una prima, difficile
versione scenica. Maria di Venosa è una performance multimediale:
musica, canto, video art, danza, prendono corpo sgorgando da un
possente nucleo centrale, metafora dell’anima e della coscienza. Maria
di Venosa è un’opera particolarmente originale, che in ogni aspetto
della sua composizione obbliga ad assumere una visione oltre il confine,
costringe a stravolgere i canoni entro i quali si è soliti inquadrare un’opera.
La sua partitura offre la presenza di due differenti ensemble musicali,
chiamati a fronteggiarsi e a rappresentare musicalmente le angosce e le
tensioni di Carlo Gesualdo, genio musicale autore di madrigali incomparabili
morto nel 1613, la cui storia, reale, è stata musicata da Francesco D’Avalos,
rielaborando sonorità antiche ed alternandole a quelle più moderne, inserendo
due madrigali originali dello stesso Gesualdo.
Francesco D’Avalos è anche autore del
libretto, e non potrebbe essere diversamente, considerando quanto musica e
testo siano lo specchio del tormento di Carlo Gesualdo, reso pazzo dal rimorso
per aver ucciso la sua amata, Maria D’Avalos, con il suo amante, Fabrizio
Carafa. Francesco D’Avalos ha scritto un’opera nella quale i personaggi
principali non cantano: la musica si riconferma protagonista assoluta del
lavoro entrando nella fisicità stessa dei personaggi e rendendosi essa stessa
interprete, personaggio. Il regista e coreografo Nikos Lagousakos mantiene i
tre personaggi principali: Maria D’Avalos, Carlo Gesualdo e Fabrizio Carafa,
affidando i ruoli a performerballerini/attori. A loro chiede di far
vivere i personaggi attraverso il linguaggio corporeo, tenendo in conto che Francesco
D’Avalos ha scritto quest’opera pensando che avrebbe potuto essere la colonna
sonora di un film muto. La messa in scena di Nikos Lagousakos prosegue il
suo lavoro di contaminazione tra differenti discipline ed arti. Attraverso la
danza il corpo accoglie la musica e racconta lo spettacolo, in maniera non
descrittiva, entrando a far parte della scenografia che durante lo spettacolo
si scompone, oppure offrendo la propria fisicità alle video proiezioni.
Per la scenografia e i costumi si affida
al lavoro di Justin Arienti, che ha realizzato un blocco monolitico che
domina la scena. Una scenografia-scultura che nel corso dello spettacolo
accompagna in un viaggio nel tempo, dal passato ad oggi, rappresentando a volte
la casa di gioventù di Carlo Gesualdo, a volte il manicomio nel quale vive il
suo presente. Il monolite svela al suo interno forme, aperture, scale, passaggi
che vengono movimentati dagli artisti stessi. Sono parte integrante del lavoro
scenografico le video installazioni di Matthias Schnabel: proiettate non solo
sulla scenografia ma anche sugli stessi performer. Non
rappresentano qualcosa di proveniente dall’esterno, ma qualcosa che scaturisce
dall’interno della struttura, oppure dall’anima dei personaggi che si
materializzano sulla superficie della scenografia, sui loro costumi o sulla
loro pelle, come se trasudassero.
Sulla scena, tre ballerini/attori -
Gloria Dorliguzzo, Marco Rigamonti e Riccardo Calia - danno corpo ai tre
protagonisti del dramma. Il soprano Liana Ghazaryan, il contralto Sara Nastos,
il coro del Teatro Petruzzelli, il gruppo di madrigalisti dell’Accademia del
Belcanto “Rodolfo Celletti” (Candida Guida, Minni Diodati, Amy Corkery,
Francesco Castoro, Joonas Asikainen) preparati da Antonio Greco, completano il
quadro dei performer, sostenuti dall’Orchestra Internazionale
d’Italia e da un ensemble di strumenti antichi. Maestro
concertatore e direttore d’orchestra è Daniel Cohen.
Sia lode e gloria a Maria di
Venosa, una performance multimediale affidata alla
guida di Nikos Lagousakos, un giovane regista capace di sospingere lo sguardo
oltre il confine, verso frontiere entusiasmanti: quelle del talento, suo e
degli altri “Venosiani”.
Il talento … Ieri, nella discussione di
una tesi presso l’Università Cattolica di Milano, è stato menzionato il motto
del fondatore di una prestigiosa azienda italiana: “Lavorare, Creare,
Donare”. Ebbene, l’auspicio è che quest’opera, dopo la prima nella mia Martina
Franca, varchi i confini della Puglia, diventando un meraviglioso dono per gli appassionati
che frequentano i teatri del mondo intero. (Francesco Lenoci* - Inform)
* Docente dell’Università Cattolica e vice presidente dell’Associazione
Regionale Pugliesi, Milano
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