RASSEGNA STAMPA
Carlo
Petrini: Quando l’emigrante era Bergoglio
Tutti gli osservatori hanno colto
l’incisività del magistero di Papa Francesco nel suo dedicare la prima uscita
dal Vaticano ai migranti, nel gesto di gettare la corona di fiori nel mare di
Lampedusa, nella denuncia dell’indifferenza, nel saper piangere con chi piange.
Mi sia consentito di leggere questa giornata straordinaria attraverso la
semplice storia di vita di quest’uomo, della sua famiglia e della sua gente.
Figlio di migranti piemontesi in terra d’Argentina e conoscitore, ne sono
certo, di un’epopea che questo nostro paese ha ormai dimenticato. Milioni di
disperati che fuggivano dalla miseria delle nostre campagne e si imbarcavano
sui piroscafi per viaggi senza ritorno. Cantavano i socialisti libertari alla
fine dell’Ottocento: “Italia bella mostrati gentile e i figli tuoi non
abbandonare; ancor qua ci sarebbe da lavorà senza andare in America a emigrar”.
I dati sono impressionanti: in un secolo,
dal 1876 al 1976, 24 milioni di emigranti hanno lasciato l’Italia, e di questi
3 milioni hanno trovato casa in Argentina.
Nel gennaio del 1929 la famiglia Bergoglio
salpa da Genova sulla nave Giulio Cesare con destino Buenos Aires. Non c’è
dubbio che nell’animo di questa famiglia e dei tanti italiani d’Argentina il
pensiero verso il naufragio del Mafalda fosse vivo e presente. Meno di due anni
prima, il 25 ottobre 1927, infatti, il Principessa Mafalda si inabissava poco
lontano dalle coste brasiliane causando la morte di 314 migranti italiani.
Sulle piazze queste storie si cantavano, i cantastorie le diffondevano mettendole
in versi e i “fogli volanti” ricostruivano le vicende.
L’impianto musicale di questa tragica
vicenda è lo stesso di un altro canto, quello che narra del naufragio del
bastimento Sirio, avvenuto nel 1906.
Ricordo che nelle mie Langhe sul finire degli
anni ’60 i vecchi cantavano e mescolavano le parole del Sirio e del Mafalda, e
certamente nella Buenos Aires del secolo appena trascorso l’accordeon evocava
queste note.
Nelle valli cuneesi, sui colli Berici, nelle
risaie della Lomellina così come nei quartieri italiani di Boca o Almagro a
Buenos Aires, o nei vigneti di Mendoza e nella pianura di Rosario risuonavano
le stesse arie.
«E da Genova il Sirio Partiva
per l’America varcare il confin
4 agosto le 5 di sera
urta il Sirio terribile scoglio
di tanta gente la misera fin
Padri e madri bracciavan i suoi figli
che si sparivan tra le onde del mar».
Ecco le madri e i figli evocati da
Francesco, che oggi sono neri d’Africa ma che cent’anni fa erano piemontesi,
lombardi, veneti. Morti nello stesso mare nell’indifferenza e nel disprezzo di
una classe politica che già allora applicava meccanicamente regole ottuse senza
tenere conto della vita umana.
Sentite la relazione dell’Ispettorato per
l’Immigrazione del Congresso Statunitense a proposito dei migranti italiani,
risalente all’ottobre del 1912:
«Generalmente sono di piccola statura, di
pelle scura, non amano l’acqua e molti di loro puzzano perché tengono lo stesso
vestito per molte settimane; si costruiscono baracche di legno nelle periferie
delle città dove vivono gli uni vicino agli altri. Quando riescono ad
avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si
presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi
giorni diventano quattro, sei dieci. Tra loro parlano lingue a noi
incomprensibili, probabilmente antichi dialetti, fanno molti figli che faticano
a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che sono dediti al furto e
che ostacolati diventano violenti; i nostri governanti hanno aperto troppo gli
ingressi alle frontiere ma soprattutto non hanno saputo selezionare tra coloro
che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere con
espedienti o addirittura attività criminali».
Se non fosse contestualizzato questo brano
potrebbe essere opera di qualche politicante dei nostri giorni…
L’ultima strofa del Sirio recita: «E tra
loro un vescovo c’era / dando a tutti la sua benedizion».
In realtà i vescovi erano due, come
documenta la Domenica del Corriere del 19 agosto 1906: «I due vescovi di San
Paolo del Brasile e di Belem nel Parà, vistisi perduti, si inginocchiarono uno
contro l’altro su la coperta, e, dopo essersi data a vicenda l’assoluzione,
sparirono dentro l’acqua nel mare invadente. Il primo, Monsignor José Camargo
de Barcos annegò, mentre il secondo venne tratto in salvo».
Lunedì il primo tra i vescovi, il Vescovo di
Roma, ha reso testimonianza “dando a tutti la sua benedizione”.
Questi ricordi riemergono indelebili, e le
persone giuste sanno che i migranti di ieri e di oggi sono vittime
dell’ingiustizia. Come ha fatto questa nostra Italia a permettere tanto
cinismo? Dov’è la sinistra europea di fronte a questo dramma?
In fondo il sogno di questi giovani che
rischiano la vita per venire in Europa è lo stesso dei nostri nonni, e
certamente il giovane Bergoglio avrà sentito dai suoi nonni il canto: «Trenta
giorni di nave a vapore / fino in America siamo arrivati / abbiam trovato né
paglia né fieno / abbiam dormito sul nudo terreno / come le bestie abbiamo
riposà».
Papa Francesco ricorda sovente la pedagogica
sapienza di sua nonna Rosa. La memoria degli umili e la fede forte dei semplici
evocata da quelle nonne “anello forte” delle famiglie, riecheggiano nei ricordi
dei migranti, e dovrebbero assegnare a quella moltitudine di contadini mandati
per il mondo a cercar lavoro o a morire sui monti del Carso o dell’Adamello un
ruolo primario nel Panteon d’Italia.
Forse è tempo di ritornare a quel senso di
fraternità nei confronti dei migranti africani così come lo interpretavano i
socialisti “veri cristiani” all’alba del XX secolo, consci del fatto che il
destino di questi nostri fratelli è anche il nostro e quello dei nostri figli,
poiché tutti apparteniamo all’unica Terra Madre.(di Carlo Petrini, da La
Repubblica del 10 luglio 2013)
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